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Epatite B: tutti gli italiani sotto i trent’anni sono protetti

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Messaggio Da Gex Lun 21 Mar - 10:36

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Epatite B: tutti gli italiani
sotto i trent’anni sono protetti
Nel 1991 è stata introdotta nel nostro Paese la vaccinazione obbligatoria, secondo uno schema innovativo, che si è rivelato vincente
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MILANO - Un esercito di 16 milioni di italiani, immuni dall’epatite B fin da piccoli, che cresce di anno in anno. Merito della vaccinazione, resa obbligatoria venti anni fa, che oggi raccoglie i suoi frutti e celebra il suo anniversario. L’Italia è stata un modello per tutto il mondo: l’idea di vaccinare i bambini, alla nascita, e i ragazzi, a dodici anni, si è rivelata una strategia vincente, perché ha accorciato i tempi. In dodici anni, appunto, si è ottenuta una "copertura" di tutti i ragazzi al di sotto del ventiquattresimo anno di età. Un successo che tutti ci riconoscono. «Prima dell’entrata in vigore della legge che ha reso obbligatoria la vaccinazione (la legge è del 27 maggio 1991) — spiega Alessandro Zanetti, direttore del Dipartimento di Igiene all’Università di Milano, che ha contribuito alla costruzione del calendario di vaccinazione — il vaccino veniva somministrato, fin dal 1983, alle persone considerate a rischio per l’infezione sia per gli stili di vita (per esempio, tossicodipendenti) sia per la professione (personale sanitario). E anche a certi pazienti come i dializzati o i politrasfusi». Vaccinare soltanto le persone a rischio di infezione, però, non bastava e l’Organizzazione mondiale della Sanità ha cominciato a raccomandare la vaccinazione per tutti i neonati. «L’Italia è andata oltre — aggiunge Zanetti —. Da noi, infatti, la malattia si trasmette diversamente rispetto ad altri Paesi, soprattutto asiatici e mediorientali. Da quelle parti è prevalente il contagio materno-fetale e quello fra bambini, mentre in Italia le vie di trasmissione più frequenti sono i rapporti sessuali e gli aghi infetti». Immunizzare contro l’epatite non significa soltanto prevenire l’infezione acuta (che, non dimentichiamo, può essere "fulminante" in quasi l’uno per cento dei casi), ma significa anche prevenire le epatiti croniche che si manifestano nel 10-20 per cento dei casi, le sovrainfezioni da virus delta. «Il virus delta, endemico in Italia (scoperto dall’italiano Mario Rizzetto) — spiega Zanetti — è un virus difettivo: in altre parole, ha bisogno del virus B per replicarsi. Si capisce allora perché il vaccino contro il virus B protegga anche dal delta».


LE COMPLICANZE - E siccome la complicanza ultima dell’epatite cronica e della cirrosi può essere il cancro al fegato (particolarmente diffuso nelle regioni asiatiche), può essere considerato il primo vaccino anticancro. «Le donne asiatiche, rispetto alle caucasiche — precisa Zanetti — presentano una replicazione più accentuata del virus e, per questo, infettano più facilmente il neonato. Quanto più l’infezione è precoce, tanto più rapidamente porterà a eventuali complicanze come la cirrosi o il cancro». Ecco perché Taiwan è stato uno dei primi Paesi a introdurre, nel 1984, la vaccinazione universale per tutti i bambini e oggi Paesi come Cina e India (dove l’incidenza di tumori è elevatissima) stanno lavorando attivamente in questa direzione. Attualmente, in tutto il mondo, sono 177 i Paesi che hanno adottato la vaccinazione neonatale: rappresentano l’82 per cento del totale. Oggi il vaccino, che viene somministrato in Italia ai neonati è l’esavalente, di ultima generazione. «Il primo vaccino antiepatite che si è reso disponibile, negli anni Ottanta, — ricorda Zanetti — era quello derivato dal plasma. Il virus dell’epatite, infatti, è un virus furbo: quando si replica, fabbrica in eccesso certe proteine di superficie (fanno parte dell’involucro esterno dentro al quale è racchiuso il Dna), per distrarre il sistema immunitario dell’individuo: queste proteine sono costituite dal cosiddetto HBsAg, chiamato, all’inizio, antigene Australia». L’Australia, appunto. Perché la storia della vaccinazione antiepatite comincia proprio lì e "l’antigene Australia ha rivoluzionato l’epatologia" (così una rivista californiana titolava un articolo pubblicato nel 1972). Negli anni Sessanta, un ricercatore americano, Baruch S. Blumberg (Nobel per la Medicina nel 1976), mentre stava studiando il cancro al fegato e conduceva ricerche sul campo, scoprì nel sangue degli aborigeni una proteina, che chiamò antigene Australia. La scoperta (che il fisico-matematico- medico-antropologo Blumberg racconta nel libro "The hunt for a killer virus") aprirà la strada alla messa a punto del test diagnostico per l’infezione e del vaccino. Il vaccino di prima generazione, dunque, era costituito da particelle virali (antigene Australia, poi ribattezzato HBsAg), estratte da sangue di soggetti infetti, e comincia a essere utilizzato a partire dagli anni Ottanta. Poi scoppia il caso Aids e il sangue non è più considerato sicuro (le vie di trasmissione del virus B e dell’Hiv sono le stesse): anche se tutte le procedure di produzione del vaccino garantivano la sicurezza, questa situazione ha stimolato la ricerca di alternative. Le biotecnologie hanno contribuito a risolvere il problema: si sfrutta il lievito del pane (il <CF8126>Saccaromices cerevisiae</CF>, sicuro per l’uomo) per produrre, con le tecniche di ingegneria genetica, gli antigeni del virus, che poi vengono purificati e utilizzati per i preparati di seconda generazione. Questi nuovi vaccini arrivano sul mercato nel 1986. La terza generazione è quella degli esavalenti, introdotti nel 2000: in un unico preparato, oltre all’antiepatite B, ci sono anche quelli contro difterite, tetano, poliomielite, pertosse e meningite da Haemophilus B. Il futuro? L’obiettivo è quello di continuare a vaccinare i bambini e aumentare la copertura dei soggetti a rischio. In Italia. Nel resto del mondo, soprattutto nei Paesi poveri, c’è ancora molto da fare.

Adriana Bazzi
20 marzo 2011
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