Aids, una sfida che dura da trent'anni
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Aids, una sfida che dura da trent'anni
ANNIVERSARI IMPORTANTI. Agli inizi era la malattia dei tossicodipendenti, ora è causata soprattutto da rapporti sessuali non protetti. Per questo serve la prevenzione. Bonavina: «Molti ammalati scoprono di essere stati contagiati a distanza di anni» Serpelloni: «A disposizione terapie efficaci contro il virus e le patologie correlate»
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16/02/2011 e-mail
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Il nastro rosso è ormai conosciuto universalmente come il simbolo della lotta all'Aids
Verona. Non si tratta di fare «terrorismo». E non si può nemmeno ragionare da un punto di vista moralistico. A 30 anni dalla prima morte per Aids (Sindrome da immunodeficienza acquisita), avvenuta nel marzo 1981, gli esperti ripetono più forte il monito valido da sempre: «No ai rapporti sessuali non protetti». A meno che non si abbia la certezza, per se stessi e per il partner, di essere esenti dal virus dell'Hiv, cioè quello che fa esplodere la malattia in un tempo variabile da 6 mesi a 10 anni, a seconda del ceppo. Ecco perché al primo appello se ne aggiunge un altro: «Almeno una volta nella vita è consigliabile effettuare il test, anche se si ritiene di aver condotto una vita sessuale nella norma. Ed è bene farlo almeno una volta all'anno se si hanno rapporti occasionali».
L'incitamento a sottoporsi allo screening arriva sia dall'Ulss 20, da parte del direttore generale Maria Giuseppina Bonavina, sia dal Centro di medicina comunitaria (Cmc) in via Germania, coordinato da Oliviero Bosco, e anche dalla Commissione nazionale Aids, di cui è membro Giovanni Serpelloni, il quale è anche capo del Dipartimento politiche antidroga della presidenza del consiglio dei ministri.
LE CIFRE. Verona, insieme a Treviso, è la città veneta con il maggior numero di casi nel decennio di sorveglianza 1999-2009. Ma è nel 2010 che si è registrato un boom, con 52 persone risultate positive al test Hiv effettuato al Cmc. Di loro, 34 non avevano mai effettuato l'esame prima di quel momento. L'età media si aggira sui 38-40 anni. Prima d'oggi, un picco si era verificato nel 2006, con 37 nuovi casi. Insomma, il trend dei contagi è in crescita e non subisce battute d'arresto. Tra la popolazione residente nel territorio dell'Ulss 20, i casi emersi tra il 1984 e il 2009 sono stati 410 (3.349 in tutto il Veneto): 282 persone risultano decedute, 128 sono tuttora viventi. Il Cmc, l'anno scorso, ha sottoposto al test Hiv in anonimato e tenuto in monitoraggio 1.361 individui. Bisogna pensare che dal Cmc, centro di riferimento per il Veneto ma con pazienti che arrivano anche da fuori regione, in 25 anni sono state sottoposte a screening 17mila persone.
«Gli ultimi rapporti confermano che la trasmissione, nella stragrande maggioranza dei casi, avviene a causa di rapporti sessuali non protetti», spiega Bonavina. «I dati più preoccupanti sono due. Molte delle ultime persone che hanno scoperto di essere sieropositive avevano l'infezione da circa 10 anni. E si stima che in Veneto il 30 per cento sul totale dei malati non sappia ancora di esserlo. Ecco perché non si deve abbassare la guardia e la prevenzione è essenziale».
EVOLUZIONE. In 30 anni dalla sua comparsa, dovuta, si pensa, alla mutazione di un virus delle scimmie, l'approccio all'Aids è cambiato. «Allora veniva chiamata "sindrome dei gay", perché la sua diffusione spiccava tra gli omosessuali. Poi le droghe iniettate in vena hanno allargato il contagio tra i tossicodipendenti», spiega Serpelloni, che ha studiato la malattia fino dai primi casi. «Oggi si nota che la trasmissione resta costante tra gli omosessuali, diminuisce tra i tossici perché non si passano più le siringhe, cresce tra gli eterosessuali, i quali non hanno ancora imparato la lezione».
Sul fronte dei farmaci, «fino agli anni '90, senza presidi medici mirati, non si poteva far altro che curare le patologie correlate. I primi pazienti ci morivano sotto gli occhi. Non è più così, avendo a disposizione oltre una decina di farmaci antiretrovirali e molti altri per le patologie correlate». E la cura? «Ci stanno lavorando centinaia di ricercatori al mondo», risponde Serpelloni. «Al momento, si sta puntando alla creazione di un vaccino terapeutico».
Lorenza Costantino
Aids, una sfida che dura da trent'anni
ANNIVERSARI IMPORTANTI. Agli inizi era la malattia dei tossicodipendenti, ora è causata soprattutto da rapporti sessuali non protetti. Per questo serve la prevenzione. Bonavina: «Molti ammalati scoprono di essere stati contagiati a distanza di anni» Serpelloni: «A disposizione terapie efficaci contro il virus e le patologie correlate»
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Il nastro rosso è ormai conosciuto universalmente come il simbolo della lotta all'Aids
Verona. Non si tratta di fare «terrorismo». E non si può nemmeno ragionare da un punto di vista moralistico. A 30 anni dalla prima morte per Aids (Sindrome da immunodeficienza acquisita), avvenuta nel marzo 1981, gli esperti ripetono più forte il monito valido da sempre: «No ai rapporti sessuali non protetti». A meno che non si abbia la certezza, per se stessi e per il partner, di essere esenti dal virus dell'Hiv, cioè quello che fa esplodere la malattia in un tempo variabile da 6 mesi a 10 anni, a seconda del ceppo. Ecco perché al primo appello se ne aggiunge un altro: «Almeno una volta nella vita è consigliabile effettuare il test, anche se si ritiene di aver condotto una vita sessuale nella norma. Ed è bene farlo almeno una volta all'anno se si hanno rapporti occasionali».
L'incitamento a sottoporsi allo screening arriva sia dall'Ulss 20, da parte del direttore generale Maria Giuseppina Bonavina, sia dal Centro di medicina comunitaria (Cmc) in via Germania, coordinato da Oliviero Bosco, e anche dalla Commissione nazionale Aids, di cui è membro Giovanni Serpelloni, il quale è anche capo del Dipartimento politiche antidroga della presidenza del consiglio dei ministri.
LE CIFRE. Verona, insieme a Treviso, è la città veneta con il maggior numero di casi nel decennio di sorveglianza 1999-2009. Ma è nel 2010 che si è registrato un boom, con 52 persone risultate positive al test Hiv effettuato al Cmc. Di loro, 34 non avevano mai effettuato l'esame prima di quel momento. L'età media si aggira sui 38-40 anni. Prima d'oggi, un picco si era verificato nel 2006, con 37 nuovi casi. Insomma, il trend dei contagi è in crescita e non subisce battute d'arresto. Tra la popolazione residente nel territorio dell'Ulss 20, i casi emersi tra il 1984 e il 2009 sono stati 410 (3.349 in tutto il Veneto): 282 persone risultano decedute, 128 sono tuttora viventi. Il Cmc, l'anno scorso, ha sottoposto al test Hiv in anonimato e tenuto in monitoraggio 1.361 individui. Bisogna pensare che dal Cmc, centro di riferimento per il Veneto ma con pazienti che arrivano anche da fuori regione, in 25 anni sono state sottoposte a screening 17mila persone.
«Gli ultimi rapporti confermano che la trasmissione, nella stragrande maggioranza dei casi, avviene a causa di rapporti sessuali non protetti», spiega Bonavina. «I dati più preoccupanti sono due. Molte delle ultime persone che hanno scoperto di essere sieropositive avevano l'infezione da circa 10 anni. E si stima che in Veneto il 30 per cento sul totale dei malati non sappia ancora di esserlo. Ecco perché non si deve abbassare la guardia e la prevenzione è essenziale».
EVOLUZIONE. In 30 anni dalla sua comparsa, dovuta, si pensa, alla mutazione di un virus delle scimmie, l'approccio all'Aids è cambiato. «Allora veniva chiamata "sindrome dei gay", perché la sua diffusione spiccava tra gli omosessuali. Poi le droghe iniettate in vena hanno allargato il contagio tra i tossicodipendenti», spiega Serpelloni, che ha studiato la malattia fino dai primi casi. «Oggi si nota che la trasmissione resta costante tra gli omosessuali, diminuisce tra i tossici perché non si passano più le siringhe, cresce tra gli eterosessuali, i quali non hanno ancora imparato la lezione».
Sul fronte dei farmaci, «fino agli anni '90, senza presidi medici mirati, non si poteva far altro che curare le patologie correlate. I primi pazienti ci morivano sotto gli occhi. Non è più così, avendo a disposizione oltre una decina di farmaci antiretrovirali e molti altri per le patologie correlate». E la cura? «Ci stanno lavorando centinaia di ricercatori al mondo», risponde Serpelloni. «Al momento, si sta puntando alla creazione di un vaccino terapeutico».
Lorenza Costantino
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