Il progetto Casa Alloggio HIV-AIDS del Gruppo Abele
Il progetto Casa Alloggio HIV-AIDS del Gruppo Abele
«Questa casa è nata per rispondere ai bisogni di persone legate alla tossicodipendenza che contraevano l'Aids. In passato, con la struttura gemella di San Vito, semplicemente accompagnavamo alla morte i nostri ospiti: era difficile combattere l'Aids. Poi con le campagne d'informazione il numero di nuovi infetti è sceso e, con i farmaci antiretrovirali, la malattia è diventata più gestibile. Oggi siamo diventati un progetto di Casa Famiglia con compiti educativi».
Silvia Caval Weimar, educatrice professionale e responsabile di Cascina Tario (ad Andezeno, vicino a Chieri, in provincia di Torino), una comunità del Gruppo Abele specializzata nell'accoglienza, cura ed educazione di tossicodipendenti sieropositivi, ha accettato di incontrare Nuova Società e raccontare la vita della struttura.
Silvia, chi sono gli ospiti dalla vostra comunità?
«Ne ospitiamo non più di 12 per volta. Nel loro vissuto c'è la tossicodipendenza, i problemi giudiziari e lo sfilacciamento dei rapporti familiari. Hanno una condizione sanitaria difficile; cercano di recuperare una certa stabilità fisica, e sono seguiti dai Sert. Chiedono sostegno nell'affrontare la patologia, ma cerchiamo di aiutarli anche nella rielaborazione della storia di tossicodipendenza e nel riallacciare rapporti familiari».
Il progresso scientifico ha derubricato l'Aids da patologia terminale a cronica, cosa è cambiato nel rapporto tra operatori e utenti?
«Ora facciamo un grosso lavoro nel campo riabilitativo in relazione alla dipendenza dalle sostanze stupefacenti. Si cercano strade percorribili, non solo un accompagnamento alla morte».
Come è formata l'équipe della comunità, e cosa vi dà personalmente questo lavoro?
«L'équipe è formata da tre educatori, due psicologi, un'assistente sociale e una sociologa.
E' un lavoro che senti dentro, noi aiutiamo gli ospiti a rimanere aderenti alla propria realtà. Penso che la sofferenza possa essere trasformata in qualcos'altro, e la malattia può divenire possibilità. Le paure vanno sempre accettate: quella della morte o di non avere il tempo di riscattarsi. C'è nel tossicodipendente malato questo rapporto continuo con la vita e con la morte».
E come si confronta con una malattia così grave chi ne è affetto?
«C'è chi la nega, anche se si cura. C'è chi imputa alla malattia ogni difficoltà: comportamento giustificatorio che si lega alla tossicodipendenza. Altri, invece, imparano a conviverci, ascoltando i segnali del proprio corpo e prendendo coscienza dei limiti che la patologia impone».
L'Hiv può essere trasmesso per via sessuale, che rapporto hanno i vostri ospiti con il sesso e l'affettività?
«Difficile e compromesso. E' presente la paura d'infettare l'altro, tanto che nessuno di loro riesce ad immaginare un rapporto con persona non sieropositiva. C'è il timore del rifiuto e, per chi viene dal mondo arabo, l'identificazione della malattia con un castigo per i propri peccati e immoralità».
Come vedono il futuro queste persone, e voi create dei progetti per loro?
«I progetti sono molti e personalizzati. C'è chi viene accompagnato in percorsi di riqualificazione professionale o di studio, come per la qualifica di Oss. Abbiamo laboratori di falegnameria e ceramica. Aiutiamo a fare richieste di case popolari, assegni d'invalidità e accompagnamento. Chi può lavorare viene assistito nella ricerca di lavori protetti compatibili con le condizioni di salute».
Come si sostiene economicamente la comunità?
«Le rette le coprono le Asl (finanziamento regionale, ndr), la casa è in comodato d'uso e appartiene all'Asl To5. Il territorio ci è amico, ci sono volontari del chierese che prestano opera a Cascina Tario. Siamo ben integrati e ne siamo soddisfatti»
Un'ultima domanda Silvia. La vostra è nel suo genere una struttura di eccellenza, ma nel resto della Regione e del Paese cosa esiste di simile?
«In Piemonte non ce ne sono più di otto di questo tipo, nel nord Italia ne esistono molte, nel Mezzogiorno la situazione purtroppo è diversa. Noi cerchiamo di dare un contributo a chi vuole operare nel campo. Vengono a fare esperienza a Cascina Tario giovani che svolgono il servizio civile, alcuni poi proseguono nella carriera di operatori. Svolgo questo lavoro da dieci anni e, retorica a parte, lavoro può dare tanto, ma davvero tanto a ciascuno di noi».
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Silvia Caval Weimar, educatrice professionale e responsabile di Cascina Tario (ad Andezeno, vicino a Chieri, in provincia di Torino), una comunità del Gruppo Abele specializzata nell'accoglienza, cura ed educazione di tossicodipendenti sieropositivi, ha accettato di incontrare Nuova Società e raccontare la vita della struttura.
Silvia, chi sono gli ospiti dalla vostra comunità?
«Ne ospitiamo non più di 12 per volta. Nel loro vissuto c'è la tossicodipendenza, i problemi giudiziari e lo sfilacciamento dei rapporti familiari. Hanno una condizione sanitaria difficile; cercano di recuperare una certa stabilità fisica, e sono seguiti dai Sert. Chiedono sostegno nell'affrontare la patologia, ma cerchiamo di aiutarli anche nella rielaborazione della storia di tossicodipendenza e nel riallacciare rapporti familiari».
Il progresso scientifico ha derubricato l'Aids da patologia terminale a cronica, cosa è cambiato nel rapporto tra operatori e utenti?
«Ora facciamo un grosso lavoro nel campo riabilitativo in relazione alla dipendenza dalle sostanze stupefacenti. Si cercano strade percorribili, non solo un accompagnamento alla morte».
Come è formata l'équipe della comunità, e cosa vi dà personalmente questo lavoro?
«L'équipe è formata da tre educatori, due psicologi, un'assistente sociale e una sociologa.
E' un lavoro che senti dentro, noi aiutiamo gli ospiti a rimanere aderenti alla propria realtà. Penso che la sofferenza possa essere trasformata in qualcos'altro, e la malattia può divenire possibilità. Le paure vanno sempre accettate: quella della morte o di non avere il tempo di riscattarsi. C'è nel tossicodipendente malato questo rapporto continuo con la vita e con la morte».
E come si confronta con una malattia così grave chi ne è affetto?
«C'è chi la nega, anche se si cura. C'è chi imputa alla malattia ogni difficoltà: comportamento giustificatorio che si lega alla tossicodipendenza. Altri, invece, imparano a conviverci, ascoltando i segnali del proprio corpo e prendendo coscienza dei limiti che la patologia impone».
L'Hiv può essere trasmesso per via sessuale, che rapporto hanno i vostri ospiti con il sesso e l'affettività?
«Difficile e compromesso. E' presente la paura d'infettare l'altro, tanto che nessuno di loro riesce ad immaginare un rapporto con persona non sieropositiva. C'è il timore del rifiuto e, per chi viene dal mondo arabo, l'identificazione della malattia con un castigo per i propri peccati e immoralità».
Come vedono il futuro queste persone, e voi create dei progetti per loro?
«I progetti sono molti e personalizzati. C'è chi viene accompagnato in percorsi di riqualificazione professionale o di studio, come per la qualifica di Oss. Abbiamo laboratori di falegnameria e ceramica. Aiutiamo a fare richieste di case popolari, assegni d'invalidità e accompagnamento. Chi può lavorare viene assistito nella ricerca di lavori protetti compatibili con le condizioni di salute».
Come si sostiene economicamente la comunità?
«Le rette le coprono le Asl (finanziamento regionale, ndr), la casa è in comodato d'uso e appartiene all'Asl To5. Il territorio ci è amico, ci sono volontari del chierese che prestano opera a Cascina Tario. Siamo ben integrati e ne siamo soddisfatti»
Un'ultima domanda Silvia. La vostra è nel suo genere una struttura di eccellenza, ma nel resto della Regione e del Paese cosa esiste di simile?
«In Piemonte non ce ne sono più di otto di questo tipo, nel nord Italia ne esistono molte, nel Mezzogiorno la situazione purtroppo è diversa. Noi cerchiamo di dare un contributo a chi vuole operare nel campo. Vengono a fare esperienza a Cascina Tario giovani che svolgono il servizio civile, alcuni poi proseguono nella carriera di operatori. Svolgo questo lavoro da dieci anni e, retorica a parte, lavoro può dare tanto, ma davvero tanto a ciascuno di noi».
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