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Messaggio Da Gex Lun 17 Ott - 8:09

Andrea Jacchia

Vasilij Georgievič Aleksanjan era malato di Aids ed era stato uno dei nuovi ricchi della Mosca post Urss (con un ruolo chiave nella Yukos di Chodorkovskij). I suoi ultimi anni, rinchiuso – come il suo ex capo – in un carcere gulag, sembrano venuti fuori dalla più catastrofica letteratura russa. Piero Ernesto Weiss era nato a Trieste in una famiglia di assicuratori e artisti. È morto a Baltimora, musicista e musicologo, cacciato là dalle leggi fasciste sulla razza. Dennis MacAlistair Ritchie, pioniere dei computer, ha cambiato il mondo e la nostra vita con i suoi software ma non è stato celebrato come Steve Jobs. Peccato, se lo sarebbe meritato.

16 ottobre 2011 - 11:05
Vasilij Georgievič Aleksanjan
(15 dicembre 1971 – 2 ottobre 2011)
Uomo d’affari russo di origine armena, e avvocato, con una laurea in Legge a Mosca, e un successivo Master of Laws ad Harvard. Nei primi anni Novanta era uno di quei “nuovi russi”, molto giovani, che proiettavano il proprio apprendistato in società e studi legali soprattutto americani e inglesi. Lui aveva lavorato, fra l’altro per il British Investment Sun Group. Nel 1996 diventava capo dell’ufficio legale, e poi vicepresidente esecutivo, del gigante petrolifero Yukos. Un passaggio di carriera che sembrava un massimo traguardo, ma che avrebbe coinciso, in una decina d’anni, con la sua rovina totale e una morte, a meno di 40 anni, per «complicazioni dovute all’Aids».

I suoi ultimi quindici anni sembrano venuti fuori dalla più catastrofica, e in genere magnificamente raccontata, letteratura russa: quando il personaggio centrale precipita senza remissione, e in genere crepa, o impazzisce. Come il Padre Vasilij (del racconto di Leonid Nikolaevič Andreev) o il principe Myškin (dell’Idiota dostoevskiano). Aleksanjan ha avuto la sorte di crescere postsovietico, intraprendente, e “riuscito” in tempi brevi, in un’epoca russa rivoluzionata e torbida, ed è stato segnato dal fatto di diventare un bersaglio politico di Vladimir Putin. La sua rovina, in breve, ha avuto queste tappe: il 6 Aprile 1996, veniva arrestato e imprigionato con l’accusa di evasione fiscale e riciclaggio di denaro. Seguivano tre anni di galera, interrotti solo per un intervento della Corte europea per i diritti umani, il 12 gennaio 2009. Quel carcere – un vero gulag di una falsa democrazia – è stato più volte raccontato dallo stesso Aleksanjan: una cella con i muri invasi dalla muffa, e così ghiacciata da costringerlo a vivere stabilmente intabarrato in uno strato di coperte. E questo malgrado fosse stato aggredito, a tappe conseguenti, dall’Hiv, e poi dall’Aids, che avevano successivamente favorito un cancro, con metastasi, ai linfonodi, e la tubercolosi.
Il tutto veniva aggravato, da un atto decisamente coraggioso e disperato in quelle condizioni: uno sciopero della fame, sospeso il 27 Aprile 2006, per protestare contro l’illegalità dell’intero procedimento.

La principale testimonianza d’accusa veniva da Svetlana Petrovna Bakhmina, già assistente dell’imputato (e arrestata nel 2004) ai tempi del massimo potere nell’impresa petrolifera. Quella testimonianza era falsa, e naturalmente ottenuta con intimidazioni. Come le organizzazioni di difesa dei diritti dell’uomo hanno pubblicamente e più volte denunciato. Prima della scarcerazione, Aleksanjan aveva passato un periodo intermittente di cura all’Ospedale oncologico di Mosca. Intermittente, perché, nel 2008, una Corte di giustizia (per modo di dire) di Mosca aveva di nuovo disposto una semiprigionia, nonostante tutte quelle malattie accertate. Nello stesso anno, la principale Corte della capitale accordava alla vittima la riospedalizzazione, dietro pagamento di 50 milioni di rubli (circa due milioni di dollari). Il pagamento di questa cifra avveniva il 12 gennaio 2009, quando la Corte europea per i diritti otteneva, con una vera e propria causa allo Stato russo, il suo rilascio immediato. Dopo gli ultimi due anni, passati prevalentemente in ospedale, Aleksanjan è morto a casa sua, a Mosca. Quando lo stavano processando, gli veniva regolarmente promessa la libertà se avesse testimoniato contro il suo ex capo Michail Borisovič Chodorkovskij (tuttora in una galera siberiana). Dati i fatti qui raccontati, è inutile precisare quale sia stata la sua risposta.

Piero Ernesto Weiss
(26 gennaio 1928 – 2 ottobre 2011)
Musicologo americano di origine triestina. Aveva 83 anni, è morto a Baltimora, Maryland.

Fra gli italiani costretti a emigrare dal razzismo del regime fascista, Piero Weiss non è fra i più conosciuti, e, anche per questo, merita un ricordo particolare. Dov’era nato – Trieste – e la sua famiglia erano particolari per definizione. Suo padre era un noto assicuratore (Ottocaro Weiss, all’italiana) nella città delle Assicurazioni Generali. Sua madre, Ortensia Schmitz, violinista, era la nipote di Italo Svevo (che si chiamava, all’origine, Aaron Ettore Schmitz). Un altro Weiss, Edoardo, psicoanalista, ha diffuso, per primo, Sigmund Freud fra gli italiani. Piero Weiss, musicista nato per vocazione e buonissimi studi, e pianista in particolare, aveva iniziato a 16 anni a dare concerti, nel 1944. Era in America, con i suoi, dal 1938. Avrebbe continuato, come interprete, fino al 1960: il suo repertorio centrava soprattutto Schubert, e poi Schumann, Debussy, e Ravel. Aveva studiato piano con un gigante e una gigantessa (sia dell’interpretazione che dell’insegnamento): Izabella Vengerova e Rudolf Serkin. Era stato fortunato in grande anche nell’avere Adolf Busch come maestro nella musica da camera.

Il passaggio dall’interpretazione pianistica alla musicologia ha pefezionato il tracciato di Weiss, ed è stato un buon tocco della vita, anche questo. Perché i suoi libri, puntati soprattutto sulla storia dell’opera italiana, sono una miniera di intelligenza e analisi (in particolare sul diciottesimo secolo), di cui è prevista la traduzione e la pubblicazione per il 2012 dalla casa editrice Edt di Torino. Il suo libro massimo, scritto insieme a Richard Taruskin, resta Music in the Western World: A History in Documents, un’antologia, anche di fonti, adottata nei principali college, università, e conservatori degli Stati Uniti e del Canada.


Dennis MacAlistair Ritchie
(9 settembre 1941 – 12 ottobre 2011)
Pioniere informatico americano, un inventore, e un “nome” fra i più importanti e meno conosciuti. Anche per la sua idiosincrasia alla pubblicità di se stesso. Aveva 70 anni, un tumore alla prostata, e soffriva di insufficienza cardiaca. Era sempre vissuto da solo. È stato trovato morto a casa sua a Berkeley Heights, New Jersey. Il 12 Ottobre, a 519 anni dall’approdo di Colombo sulle coste americane.

Il ricordo di questa data reale e convenzionale, serve più che altro a sottolineare l’importanza di un punto d’ arrivo, o di una scoperta. E il risultato di un percorso. Dennis Ritchie meriterà anche di essere studiato dai linguisti, e il fatto che il suo lavoro glottologico riguardasse l’ingegneria informatica, perfeziona, o aggiorna, ulteriormente i termini di quella materia. Ritchie, definito un «rivoluzionario silenzioso», o uno Steve Jobs deprivato di pubblici onori post mortem, ha inventato, lui, uno dei linguaggi mondiali di programmazione, e ha contribuito a creare un sistema operativo altrettanto planetario. Il primo si chiama “linguaggio C”, il secondo è il sistema Unix.






Quest’ultimo risale al 1971, e nasceva nei celebri laboratori della Bell (dove il padre di Dennis aveva lavorato come scienziato esperto in circuiti d’accensione): era un sistema che poteva essere trasferito da un computer all’altro, rendendo agili i passaggi in rete. È stato il prologo di internet, dei siti web, e tutta una discendenza di derivati – Mac OS X, Linux, Android, Solaris – parte da quella progenitura. Il linguaggio C, venuto al mondo e per il mondo nel 1973, ha avuto i caratteri di una parola d’ordine di massa: era un linguaggio buono per ogni settore, cioè non limitato (alla finanza, o alla ricerca scientifica, per esempio), facilitava i passaggi fra computer, e ha segnato la nascita del libero software. Di Dennis Ritchie è stato scritto – ma era il minimo reale che si potesse fare – che «senza le due parti del suo genio, il mondo tecnologico odierno sarebbe irriconoscibile». Si potrebbe aggiungere che “dmr” (era la sua sigla, da lui voluta al minuscolo) ce l’ha fatta a creare una lingua mondiale. Attraverso l’informatica è stato un sorprendente e inatteso esperantista.

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