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Il mio amico Freddie Mercury e l'Hiv Aids

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Messaggio Da Gex Sab 15 Ott - 10:00

Sesso, droga, vita spericolata: la più rock delle star raccontata da chi gli è stato vicino. Fino alla fine

Negli anni Ottanta Freddie se l’intendeva con un certo Bill Reid, un tipo ben piazzato e flemmatico del New Jersey, che aveva conosciuto in un bar di New York. Fu una relazione turbolenta, a volte con punte di violenza da brivido. Un giorno Reid morse la mano di Freddie fra il pollice e l’indice. Freddie sentiva un dolore fortissimo e perdeva sangue dalla ferita, ma rifiutò qualunque tipo di soccorso. E salì sul palco».

Ha visto questo e molto di più, Peter Freestone, l’uomo che al cantante dei Queen ha dedicato 12 anni di vita e un libro, Freddie Mercury, una biografia intima.
«Ero il suo assistente personale, la sua ombra, la prima persona a cui si rivolgeva per qualsiasi esigenza. Sono stato al suo fianco nei gay club di tutto il mondo, in vacanza, a casa di Michael Jackson. L’ho preso in braccio nelle stanze della sua villa di Londra: l’aids gli aveva scarnificato un piede e, per Freddie, camminare era diventato un calvario dolorosissimo. Ero lì anche quando ha chiuso gli occhi per sempre, la sera del 24 novembre 1991. Non puoi capire che cos’è l’Hiv finché non vedi da vicino come consuma gli uomini» racconta commosso a Panorama.


«Ho vissuto al suo fianco l’era della luce e quella del buio. Dopo la diagnosi, è scesa la notte. Ho visto la più straordinaria delle vite glamour trasformarsi in una mesta fuga dal mondo» ricorda Freestone. «Negli anni felici, quando non era impegnato a scrivere musica memorabile, Freddie si buttava sul sesso. Per lui era un’attività spensierata da praticare senza grandi investimenti emotivi. L’amore di cui cantava apparteneva a un’altra dimensione e non so se l’abbia mai sperimentato di persona». Quel che di sicuro amava assaporare erano i piaceri proibiti della vita notturna.

«Freddie adorava il Saint, un vecchio teatro nel Lower East Side di New York trasformato in uno spettacolare nightclub per omosessuali. Riuscii a ottenere la tessera di socio onorario in modo che il suo nome non comparisse fra quello degli avventori. Il difficile fu conquistare l’armadietto. Non se ne poteva fare a meno perché, dopo avere indossato gli indumenti fetish e il necessario da mettersi sopra durante le danze, vi si riponevano i vestiti normali e la droga. Il venerdì pomeriggio andavo a casa del nostro “amichevole” spacciatore di fiducia nel Lower West Side. Su un tavolo c’erano due cestini da lavoro di metallo con dentro un vasto assortimento di pastiglie e polverine, tutti etichettati con nome e prezzo. Mancava solo il carrello…» racconta Freestone, ribadendo quel che ha scritto nel suo libro verità.

Scampoli di una vita sopra le righe, bruscamente interrotta dalle analisi su un brandello di tessuto prelevato dalla spalla nel 1987: «Io ho l’aids, lo dicono i migliori medici sulla piazza, se vuoi lasciarmi non farò niente per impedirtelo, capirò»: con queste parole e un abbraccio interminabile Freddie Mercury annunciò al boyfriend Jim Hutton (morto di tumore nel 2010) che il suo tempo stava per scadere. Hutton non se ne andò restandogli accanto fino all’ultimo respiro. Senza interferire con la drastica decisione del fidanzato di sospendere tutte le cure, fatta eccezione per gli antidolorifici a base di morfina.


Freddie Mercury (il secondo da sinistra) con quattro amici di New York ribattezzati Mother’s Club. (Foto: Peter Freestone)

«Due settimane prima di spegnersi, Freddie mi disse: “Basta con le medicine”» ricorda Freestone. «Era appena rientrato da Montreux, era debolissimo e aveva la vista appannata. Sapeva che la sua ora stava per scoccare. Entrò in casa e con un filo di voce disse: “Sappiamo tutti che da questa porta non uscirò mai più in piedi”. Scese il gelo, fu come una coltellata a freddo nel petto. Mi rifugiai nella sala palestra e, per la prima volta, compresi che Freddie non aveva mai utilizzato uno di quegli attrezzi, che non aveva mai fatto un minuto di sport in tutta la vita. Iniziai a fotografare con lo sguardo ogni angolo della villa, consapevole che da lì a poco sarei uscito di lì per non rientrarci mai più». La stessa consapevolezza che aveva Brian May, il chitarrista dei Queen: «Ci convocò a casa per darci la notizia. Ricordo solo minuti interminabili di sofferenza e silenzio. Disse che avrebbe continuato a incidere canzoni fino alla fine, ma a una condizione: che nessuno di noi lo trattasse da malato. Rispettammo la sua volontà, però vederlo cantare senza energie fu uno strazio infinito. La gente lo amava davvero, non mi stupiscono i continui tributi alla sua arte, anche vent’anni dopo (il 9 novembre esce Freddie Mercury, pensieri e parole, a cura di Greg Brooks e Simon Lupton, edito da Mondadori, ndr)».


«Quando ripenso a Freddie, cosa che capita tutti i giorni» racconta Freestone «lo rivedo nel giardino di Jackson mentre, schifato e con i pantaloni bianchi sporchi di fango, viene costretto a visitare una sorta di minizoo privato. Era terrorizzato dai lama, temeva i loro sputi come la peste. Finito il tour nel mondo animale, si chiusero in sala d’incisione: solo loro due, impegnati l’uno a misurare lo sterminato talento dell’altro. Mi chiesero anche di battere per 5 minuti con il pugno sullo stipite della porta: “Scusa, ci siamo dimenticati di convocare il batterista”».

Frammenti di vita reale di un genio della musica, di una star senza confini che da un giorno all’altro ha visto il suo mondo rimpicciolirsi drammaticamente. «Dalle arene stipate ai muri di una stanza popolata solo dai suoi gatti» sospira Freestone.
Che aggiunge: «L’ultimo atto fu scrivere un comunicato in cui annunciava al mondo la sua malattia. Il giorno dopo non volle nemmeno vedere i giornali. Il dado era tratto e lui non aveva più niente da difendere» racconta Freestone a voce e nel suo libro. «I secondi erano diventati ore, i minuti giorni.

Nella villa, il Garden Lodge, nessuno aveva più il senso del tempo e dello spazio. Solo silenzio. Fino allo squillo del telefono che tutti temevamo: era Joe, uno dei suoi amici più cari, che mi chiedeva di salire nella stanza. Freddie era entrato in coma dopo un attacco di brividi. Era rigido, con la testa in posizione innaturale. Provammo a scuoterlo delicatamente. Provammo a scuoterlo delicatamente, a parlargli. Ma fu tutto inutile».

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