La lunga marcia delle africane divenute «artigiane della pace»
La lunga marcia delle africane divenute «artigiane della pace»
Il microcredito, la cura della terra, la difesa della salute
Un gruppo di donne all' apertura del World Social Forum di Dakar in Senegal lo scorso febbraio chiedeva a gran voce con uno striscione: «Il Nobel per la pace 2011 alle donne africane». Una sorta di premio collettivo, un riconoscimento della loro attività invisibile non solo nel tamponare le emergenze ma come motore trainante dello sviluppo, del cambiamento e della pace. Ieri la loro richiesta è stata accolta. Perché, anche se il Nobel per la pace è andato a singole donne, è stato un premio condiviso. In sintonia con la modalità tipica d' azione delle donne africane: la cooperazione, il fare rete. Le due vincitrici liberiane («eredi» dell' attivista kenyota Wangari Maathai, prima donna africana a ricevere il riconoscimento nel 2004 e scomparsa il mese scorso), hanno agito del resto quasi in tandem: il movimento guidato da Leymah Gbowee ha spianato la strada all' elezione a presidente della Liberia di Ellen Johnson Sirleaf. In questo modo di fare si riconoscono tutte le africane, spiega al Corriere l' ideatrice della campagna per il Nobel alle africane, Hélène Yinda, intellettuale del Camerun: «È un giorno di grande felicità. È la vittoria della solidarietà tra le africane, il riconoscimento che quello che le donne fanno ogni giorno le rende artigiane di pace» sorride Yinda. La sua idea, lanciata nel 2008 a Dakar durante un incontro internazionale, è stata raccolta da due realtà associative italiane: il Cipsi, coordinamento di 48 associazioni, e ChiAma l' Africa. «Volevamo portare sullo scenario internazionale il ruolo crescente svolto dalle donne in tanti Paesi africani» racconta Guido Barbera, presidente del Cipsi. «Nel nostro dossier di candidatura a Oslo, abbiamo segnalato oltre 150 realtà femminili, tra reti e associazioni singole», segno evidente della vitalità della società civile africana. Barbera riporta gli interventi di alcune donne: «Il premio non risolve i nostri problemi ma ci è utile per poter avere attenzione sulla scena internazionale, per ottenere incontri a livello politico e della società civile». Hanno fame di relazioni oggi le donne africane. Per questo il Nobel per loro è solo la tappa di un percorso: il 22 maggio hanno presentato la candidatura al Nobel al Parlamento europeo, il 6 dicembre ci sarà un incontro con il mondo delle imprese a Roma. E sempre a Roma, il 28 ottobre nell' ambito del Festival del Cinema di Roma verrà presentato il documentario African Women . Stefano Scialotti lo ha girato nelle case di sei donne senegalesi. Il film getta luce sul «protagonismo silenzioso» delle donne: nel microcredito, nella cura della terra (lavorata al 70% dalle donne, ma posseduta esclusivamente dagli uomini), nella difesa della salute, soprattutto contro l' Hiv. «Mi ha colpito il modo creativo e ironico di portare avanti le loro lotte - racconta Scialotti al Corriere -. L' educazione sessuale, per esempio, in un villaggio ha preso la forma di una danza tribale preludio alla comparsa di un gigantesco preservativo per donne, accompagnato da una battuta: "Se gli uomini nei loro portafogli possono metterne due, nelle nostre borse ce ne stanno anche 100"». Un' ulteriore tappa della campagna è la nascita di un social network sull' Africa (walkingafrica.info). Anche le istituzioni si stanno muovendo. L' Unione africana, la cui Commissione è composta per la metà di donne, ha adottato il 28 marzo del 2009 il Protocollo di Maputo, una Carta sui diritti delle donne, dalla partecipazione al processo politico ad azioni contro le mutilazioni genitali femminili. Dal luglio 2010, dopo che la stessa Ua ha dichiarato il periodo 2010-2020 decennio della donna, 28 Stati lo hanno ratificato. Finora 24 Paesi hanno introdotto le quote femminili in Parlamento e nell' Africa subsahariana la rappresentanza femminile ha raggiunto il 18,5% (la media mondiale è 19,2%). Ma le statistiche ingannano: spesso sono operazioni di facciata. Sostanziale invece è la crescente influenza delle donne leader di associazioni. I nuovi movimenti non si concentrano solo sulla difesa dei diritti, ma danno alle donne le competenze utili per il cambiamento: formazione, lobbying, ricerca. Sono insomma in prima linea nel soddisfare la «nuova fame» delle donne africane: quella di sapere. Alessandra Muglia RIPRODUZIONE RISERVATA **** COMMENTA la notizia sul blog «La 27esima ora» 27esimaora.corriere.it
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Un gruppo di donne all' apertura del World Social Forum di Dakar in Senegal lo scorso febbraio chiedeva a gran voce con uno striscione: «Il Nobel per la pace 2011 alle donne africane». Una sorta di premio collettivo, un riconoscimento della loro attività invisibile non solo nel tamponare le emergenze ma come motore trainante dello sviluppo, del cambiamento e della pace. Ieri la loro richiesta è stata accolta. Perché, anche se il Nobel per la pace è andato a singole donne, è stato un premio condiviso. In sintonia con la modalità tipica d' azione delle donne africane: la cooperazione, il fare rete. Le due vincitrici liberiane («eredi» dell' attivista kenyota Wangari Maathai, prima donna africana a ricevere il riconoscimento nel 2004 e scomparsa il mese scorso), hanno agito del resto quasi in tandem: il movimento guidato da Leymah Gbowee ha spianato la strada all' elezione a presidente della Liberia di Ellen Johnson Sirleaf. In questo modo di fare si riconoscono tutte le africane, spiega al Corriere l' ideatrice della campagna per il Nobel alle africane, Hélène Yinda, intellettuale del Camerun: «È un giorno di grande felicità. È la vittoria della solidarietà tra le africane, il riconoscimento che quello che le donne fanno ogni giorno le rende artigiane di pace» sorride Yinda. La sua idea, lanciata nel 2008 a Dakar durante un incontro internazionale, è stata raccolta da due realtà associative italiane: il Cipsi, coordinamento di 48 associazioni, e ChiAma l' Africa. «Volevamo portare sullo scenario internazionale il ruolo crescente svolto dalle donne in tanti Paesi africani» racconta Guido Barbera, presidente del Cipsi. «Nel nostro dossier di candidatura a Oslo, abbiamo segnalato oltre 150 realtà femminili, tra reti e associazioni singole», segno evidente della vitalità della società civile africana. Barbera riporta gli interventi di alcune donne: «Il premio non risolve i nostri problemi ma ci è utile per poter avere attenzione sulla scena internazionale, per ottenere incontri a livello politico e della società civile». Hanno fame di relazioni oggi le donne africane. Per questo il Nobel per loro è solo la tappa di un percorso: il 22 maggio hanno presentato la candidatura al Nobel al Parlamento europeo, il 6 dicembre ci sarà un incontro con il mondo delle imprese a Roma. E sempre a Roma, il 28 ottobre nell' ambito del Festival del Cinema di Roma verrà presentato il documentario African Women . Stefano Scialotti lo ha girato nelle case di sei donne senegalesi. Il film getta luce sul «protagonismo silenzioso» delle donne: nel microcredito, nella cura della terra (lavorata al 70% dalle donne, ma posseduta esclusivamente dagli uomini), nella difesa della salute, soprattutto contro l' Hiv. «Mi ha colpito il modo creativo e ironico di portare avanti le loro lotte - racconta Scialotti al Corriere -. L' educazione sessuale, per esempio, in un villaggio ha preso la forma di una danza tribale preludio alla comparsa di un gigantesco preservativo per donne, accompagnato da una battuta: "Se gli uomini nei loro portafogli possono metterne due, nelle nostre borse ce ne stanno anche 100"». Un' ulteriore tappa della campagna è la nascita di un social network sull' Africa (walkingafrica.info). Anche le istituzioni si stanno muovendo. L' Unione africana, la cui Commissione è composta per la metà di donne, ha adottato il 28 marzo del 2009 il Protocollo di Maputo, una Carta sui diritti delle donne, dalla partecipazione al processo politico ad azioni contro le mutilazioni genitali femminili. Dal luglio 2010, dopo che la stessa Ua ha dichiarato il periodo 2010-2020 decennio della donna, 28 Stati lo hanno ratificato. Finora 24 Paesi hanno introdotto le quote femminili in Parlamento e nell' Africa subsahariana la rappresentanza femminile ha raggiunto il 18,5% (la media mondiale è 19,2%). Ma le statistiche ingannano: spesso sono operazioni di facciata. Sostanziale invece è la crescente influenza delle donne leader di associazioni. I nuovi movimenti non si concentrano solo sulla difesa dei diritti, ma danno alle donne le competenze utili per il cambiamento: formazione, lobbying, ricerca. Sono insomma in prima linea nel soddisfare la «nuova fame» delle donne africane: quella di sapere. Alessandra Muglia RIPRODUZIONE RISERVATA **** COMMENTA la notizia sul blog «La 27esima ora» 27esimaora.corriere.it
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