Il film-diario di Delbono "Amore e carne"
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Il film-diario di Delbono "Amore e carne"
Verso Venezia L' attore e regista teatrale nell' autobiografia «Amore e carne»
Il film-diario di Delbono «Sieropositivo con coraggio»
In cura da 22 anni. «Ma scopro le profondità della vita»
MILANO - Lo spettro con cui Pippo Delbono convive da tempo si chiama Hiv. «Sono sieropositivo da 22 anni. Un male oscuro per colpa di amore e carne», svela l' attore-regista nelle prime battute del suo film, non a caso intitolato a quel binomio fatale, Amore e carne , il 5 settembre in anteprima nella sezione Orizzonti della Mostra del cinema di Venezia. Sieropositivo da 22 anni. «Ma non scrivetelo, mia madre non lo sa», avverte. Precauzione tardiva. Difficile che resti un segreto, visto che ora lui stesso rievoca nel film la lunga, dolorosa genesi della sua malattia. Un diario di bordo per un viaggio per il mondo, da Parigi a Torino, da Istanbul a Ginevra, da Birkenau a Budapest, in bilico tra amore e morte. Con paura e coraggio, disperazione e speranza, Delbono registra tutto. Inesorabile e spietato, rimette in scena le tappe del suo calvario, gli esami clinici, i prelievi del sangue, le attese, il verdetto. Una piccola camera a mano e un telefonino, i suoi complici nell' impresa. «Mezzi leggeri, non invadenti, a misura dello sguardo - sostiene -. Il cellulare ti permette di riprendere seguendo il ritmo dei tuoi occhi, che cercano le cose, che indietreggiano, che prendono coraggio, che si fermano, che guardano e si lasciano guardare...». Occhi per spiare i sussulti del cuore, per cogliere la verità crudele della carne malata e della sua memoria. «Per trasformare una ferita che mai si dimentica in nuova linfa vitale». Perché tutta quella sofferenza, sostiene, alla fine si è rivelata un dono prezioso. «Oggi dipendo dai farmaci ma sono vivo. Se potessi tornare indietro non vorrei cambiare nulla di ciò che mi è successo. Il male mi ha permesso di ritrovare quella profondità dell' esistere che troppo spesso dimentichiamo. Di guardare in faccia quella morte, che persino la religione, persino i preti, tentano di rimuovere a ogni costo, dimenticando che tutti dobbiamo andarcene. Solo la malattia te la ricorda, ti riavvicina a Sorella Morte, ti fa sperimentare l' impermanenza». Concetto buddista, caro a Delbono. Stare e andare. I due verbi si rincorrono nel film, negli incontri con chi non c' è più, chi c' è ancora, che sta per partire. Da Pina Bausch, «colei che mi ha aperto gli occhi», il cui ricordo apre e chiude il racconto, alle attrici amiche e complici di sempre, Irene Jacob, Tilda Swinton, Marisa Berenson. Quest' ultima impegnata al Teatro dell' Aquila, poi raso al suolo, in un dialogo surreale con il sordomuto Bobò, interprete feticcio di quel teatro inciso nella carne che ha fatto conoscere Delbono in tutto il mondo. Abolendo i confini tra vita e spettacolo, le storie si intrecciano attraverso lo sguardo, la parola, la danza. Marie-Agnès Gillot, ètoile dell' Opéra di Parigi, balla da sola e Pippo ne segue il ritmo interiore con il telefonino. Ma il video, per caso o forse no, perde l' audio quando registra l' incontro più difficile, di Pippo con la madre. Due monologhi, quello dell' anziana donna e quello di suo figlio, destinati a non incontrarsi mai. Ma amarsi per sempre. «Rispetto al teatro il cinema ti permette di guardare dentro gli occhi degli altri», assicura Delbono, in questi giorni attore sul set olandese del nuovo film di Peter Greenaway, Goltzius and the Pelican Company . «Sono Dio e anche il Demonio. Due personaggi inscindibili, secondo Greenaway, che qui racconta del celebre pittore del ' 500 che dipinse in un libro le storie del Vecchio Testamento in versione erotica». Un doppio ruolo piuttosto impegnativo. «Sono la stessa persona. Ma il Demonio è più complesso: uomo e donna insieme, ha mille voci che modula come in una improvvisazione jazz. Quanto a Dio è molto più semplice: una voce sola, tono basso. Gira sempre nudo con un parruccone nero in testa». Giuseppina Manin
**** Omaggi Sopra, laMarie-Agnes Gillot, étoile dell' Opéra di Parigi, è ritratta mentre balla da sola dal telefonino di Pippo Delbono, che nel film rende omaggio anche a Pina Bausch
Il film-diario di Delbono «Sieropositivo con coraggio»
In cura da 22 anni. «Ma scopro le profondità della vita»
MILANO - Lo spettro con cui Pippo Delbono convive da tempo si chiama Hiv. «Sono sieropositivo da 22 anni. Un male oscuro per colpa di amore e carne», svela l' attore-regista nelle prime battute del suo film, non a caso intitolato a quel binomio fatale, Amore e carne , il 5 settembre in anteprima nella sezione Orizzonti della Mostra del cinema di Venezia. Sieropositivo da 22 anni. «Ma non scrivetelo, mia madre non lo sa», avverte. Precauzione tardiva. Difficile che resti un segreto, visto che ora lui stesso rievoca nel film la lunga, dolorosa genesi della sua malattia. Un diario di bordo per un viaggio per il mondo, da Parigi a Torino, da Istanbul a Ginevra, da Birkenau a Budapest, in bilico tra amore e morte. Con paura e coraggio, disperazione e speranza, Delbono registra tutto. Inesorabile e spietato, rimette in scena le tappe del suo calvario, gli esami clinici, i prelievi del sangue, le attese, il verdetto. Una piccola camera a mano e un telefonino, i suoi complici nell' impresa. «Mezzi leggeri, non invadenti, a misura dello sguardo - sostiene -. Il cellulare ti permette di riprendere seguendo il ritmo dei tuoi occhi, che cercano le cose, che indietreggiano, che prendono coraggio, che si fermano, che guardano e si lasciano guardare...». Occhi per spiare i sussulti del cuore, per cogliere la verità crudele della carne malata e della sua memoria. «Per trasformare una ferita che mai si dimentica in nuova linfa vitale». Perché tutta quella sofferenza, sostiene, alla fine si è rivelata un dono prezioso. «Oggi dipendo dai farmaci ma sono vivo. Se potessi tornare indietro non vorrei cambiare nulla di ciò che mi è successo. Il male mi ha permesso di ritrovare quella profondità dell' esistere che troppo spesso dimentichiamo. Di guardare in faccia quella morte, che persino la religione, persino i preti, tentano di rimuovere a ogni costo, dimenticando che tutti dobbiamo andarcene. Solo la malattia te la ricorda, ti riavvicina a Sorella Morte, ti fa sperimentare l' impermanenza». Concetto buddista, caro a Delbono. Stare e andare. I due verbi si rincorrono nel film, negli incontri con chi non c' è più, chi c' è ancora, che sta per partire. Da Pina Bausch, «colei che mi ha aperto gli occhi», il cui ricordo apre e chiude il racconto, alle attrici amiche e complici di sempre, Irene Jacob, Tilda Swinton, Marisa Berenson. Quest' ultima impegnata al Teatro dell' Aquila, poi raso al suolo, in un dialogo surreale con il sordomuto Bobò, interprete feticcio di quel teatro inciso nella carne che ha fatto conoscere Delbono in tutto il mondo. Abolendo i confini tra vita e spettacolo, le storie si intrecciano attraverso lo sguardo, la parola, la danza. Marie-Agnès Gillot, ètoile dell' Opéra di Parigi, balla da sola e Pippo ne segue il ritmo interiore con il telefonino. Ma il video, per caso o forse no, perde l' audio quando registra l' incontro più difficile, di Pippo con la madre. Due monologhi, quello dell' anziana donna e quello di suo figlio, destinati a non incontrarsi mai. Ma amarsi per sempre. «Rispetto al teatro il cinema ti permette di guardare dentro gli occhi degli altri», assicura Delbono, in questi giorni attore sul set olandese del nuovo film di Peter Greenaway, Goltzius and the Pelican Company . «Sono Dio e anche il Demonio. Due personaggi inscindibili, secondo Greenaway, che qui racconta del celebre pittore del ' 500 che dipinse in un libro le storie del Vecchio Testamento in versione erotica». Un doppio ruolo piuttosto impegnativo. «Sono la stessa persona. Ma il Demonio è più complesso: uomo e donna insieme, ha mille voci che modula come in una improvvisazione jazz. Quanto a Dio è molto più semplice: una voce sola, tono basso. Gira sempre nudo con un parruccone nero in testa». Giuseppina Manin
**** Omaggi Sopra, laMarie-Agnes Gillot, étoile dell' Opéra di Parigi, è ritratta mentre balla da sola dal telefonino di Pippo Delbono, che nel film rende omaggio anche a Pina Bausch
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