Le nostre scoperte servono a poco se i governi non assicurano le cure a tutti
Le nostre scoperte servono a poco se i governi non assicurano le cure a tutti
Intervista esclusiva a Françoise Barré-Sinoussi, premio Nobel per la medicina con Luc Montagnier per la scoperta del virus dell'HIV: "Sono ottimista per il futuro, ma bisogna diffondere la cultura del test preventivo fra le persone a rischio e anche fra i medici"
di MARIA RITA MONTEBELLI
Francoise Barré-Sinoussi, virologa dell'Istituto Pasteur di Parigi, premio Nobel per la medicina con Luc Montagnier per la scoperta del virus dell'Aids
ROMA - A tutt'oggi, nonostante i grandi progressi della ricerca, non esiste una cura definitiva contro l'infezione da Hiv/Aids, né un vaccino preventivo. La terapia antiretrovirale ha fatto passi da gigante nei trent'anni di storia di questa infezione, consentendo oggi ai pazienti di vivere una vita "quantitativamente" normale, ma al prezzo di una sorta di 'ergastolo terapeutico', perché i farmaci vanno presi per sempre e non sono certo privi di effetti collaterali. E' per questo che il mondo della ricerca continua a sondare altre strade, cercando spunti anche da quei gruppi (esigui) di pazienti che mostrano un comportamento particolare quando esposti al virus dell'HIV.
A cambiare intanto è la tempistica dell'inizio del trattamento. Finora, la decisione sull'inizio della terapia antiretrovirale (Arv), si basava essenzialmente sulla risposta dell'organismo all'infezione; quando la conta dei linfociti T CD4+ scendeva sotto la soglia (arbitraria) delle 500 cellule per millimetro cubo, si dava avvio al trattamento. Ma alla luce degli ultimi studi presentati a Roma, al congresso mondiale sull'Aids (IAS 2011) appena concluso, le cose potrebbero presto cambiare.
Ne abbiamo parlato con Françoise Barré-Sinoussi, che per la scoperta del virus Hiv ha ricevuto il premio Nobel per la medicina 2008, in condivisione con Luc Montagnier, e oggi è presidente della International AIDS Society.
"Bisogna iniziare la terapia appena possibile - dice la studiosa - ; gli studi hanno ormai dimostrato che trattando il paziente molto presto si riesce a ridurre la mortalità e c'è un netto beneficio anche per la società. Trattare precocemente gli individui con infezione da Hiv significa infatti abbattere il rischio di trasmettere l'infezione al partner. Ma questo naturalmente comporta la necessità di migliorare anche la parte diagnostica; bisogna cioè spingere la gente a sottoporsi al test per l'Hiv. Terapia precocissima significa infatti cominciare a trattare non appena si scopre la positività al test dell'Hiv. Senza aspettare che i linfociti CD4+ diminuiscano. Questa non è ancora una raccomandazione ufficiale delle linee guida, ma ho motivo di ritenere che lo diventerà presto. Per il momento, la decisione di avviare il trattamento subito dopo il risultato positivo del test è a discrezione del medico".
Estendere il trattamento a tutte le persone positive al test per HIV, a prescindere dalla conta dei linfociti CD4+, è un approccio sostenibile?
"Certamente è un approccio difficilmente sostenibile da un punto di vista economico nei Paesi in via di sviluppo. Ma non è solo questo. In quei contesti c'è anche il problema di come raggiungere le persone colpite dall'infezione. Io lavoro molto con l'Africa e con il Sud Est asiatico quindi conosco bene queste realtà. Il programma nazionale in Cambogia, ad esempio, prevede di trattare tutti i pazienti quando la conta dei CD4+ scenda sotto 500. Ma in questo Paese le persone con infezione da Hiv spesso arrivano in ospedale con una conta di CD4+ inferiore a 50. E questo perché fino a quel momento nessuno gli ha mai proposto di sottoporsi al test. C'è dunque tanto lavoro da fare per migliorare il sistema sanitario, anche se questo processo per la verità è stato già avviato, grazie a iniziative quali quelle del Global Fund, del Pepfar, della Clinton Foundation".
Come implementare dunque il ricorso al test per l'Hiv?
"Al congresso di Roma sono state esaminate diverse soluzioni, come i test community-based, home-based e addirittura gli auto-test per l'Hiv. Oggi è disponibile anche un test rapido casalingo, che assomiglia in qualche modo a un test di gravidanza e si fa da una gocciolina di sangue. In realtà, questa modalità di test mi preoccupa un po' e mi lascia perplessa perché ritengo che la persona con infezione da Hiv abbia bisogno di informazioni e counselling. E' troppo duro scoprire da soli di essere positivi al test, in un contesto ancora carico di stigmatizzazione e discriminazione. Non credo che siamo pronti per l'auto-diagnosi. Al contrario, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo, i test di comunità possono rappresentare una risorsa. Perché le comunità sono sempre più organizzate e possono intervenire con il counselling e l'educazione".
Chi dovrebbe sottoporsi al test?
"Tutti possono essere considerati a rischio; lo sappiamo da molto tempo. Chiunque abbia avuto rapporti sessuali non protetti, dovrebbe fare il test per l'Hiv. Io credo però che il test debba rimanere volontario, perché è una questione di responsabilità del singolo individuo. Ognuno deve assumersi le proprie responsabilità. Ma certamente il ruolo del medico è quello di proporre il test. I medici, soprattutto quelli privati, almeno nel mio Paese, non propongono volentieri questo test ai loro pazienti. Dobbiamo migliorare questo approccio a livello di medicina privata, ma anche negli ospedali, che non devono limitarsi a proporlo alle donne in gravidanza".
Qual è il futuro della terapia? Eradicare l'infezione o tenerla sotto controllo?
"Il sogno di tutti ovviamente è quello di arrivare un giorno ad eradicare completamente l'infezione o almeno a trovare una cura funzionale. Stiamo imparando molto dall'osservazione di particolari gruppi di pazienti. Gli élite controller, ad esempio, che rappresentano una vera rarità, appena lo 0,3% di tutti i pazienti con infezione da Hiv. Si tratta di individui in grado di controllare naturalmente la loro infezione. Ci sono poi i long term non progressor (l'1% di tutte le persone con infezione da HIV), pazienti che non mostrano segni di malattia per lungo tempo, pur avendo l'infezione.
"Gli élite controller non avranno mai bisogno di ricevere alcuna terapia antiretrovirale perché riescono a controllare spontaneamente la replicazione del virus. Non è possibile rilevare la presenza del virus nel loro sangue; inoltre la dimensione delle loro cellule reservoir, quelle che rappresentano i serbatoi del virus in forma latente, è molto più piccola; questi soggetti insomma presentano una risposta immunitaria forte ed efficiente, in grado di eliminare le cellule infette e di controllare l'infezione.
"C'è poi un altro piccolo gruppo di pazienti, sprovvisto di un'efficace risposta immunitaria e comunque in grado di limitare l'infezione attraverso un altro meccanismo, che stiamo cercando di scoprire. Le loro cellule sono meno suscettibili all'infezione da Hiv. Ma non per una questione di recettori, come nel caso del 'Berlin patient' 1(*). Il virus in questo caso entra nella cellula, ma qui trova un sconosciuto fattore cellulare, in grado di bloccarne la replicazione all'interno della cellula".
Che ruolo ha l'immunoterapia nel trattamento dell'infezione da Hiv?
"Finora non ha mai funzionato. L'impiego di immunomodulatori, di vaccini è stato già provato nell'infezione da Hiv, ma senza successo. Ciò non significa che in futuro non possa funzionare, ma solo che finora apparentemente non abbiamo usato la migliore strategia. Personalmente non ritengo che utilizzando solo l'Haart, o solo la vaccinoterapia, questo potrà mai funzionare. Forse potrebbe funzionare trattando i pazienti molto precocemente, subito dopo il contagio, prima ancora della siero-conversione e realizzando anche in questo caso una cura funzionale.
"Nei pazienti con infezione cronica, già in terapia con Haart da tempo, non penso che l'approccio immunoterapico possa funzionare, perché le loro difese immunitarie sono state già troppo messe alla prova dall'infezione. In questi pazienti sembra più logico cercare altre strategie terapeutiche, come ad esempio tentare di uccidere le cellule che albergano il virus in forma latente, purgando i serbatoi del virus con nuovi farmaci. E' il caso ad esempio degli Hdac (hystone deacetilase inhibitors), farmaci in grado di stanare il virus, di sbloccarne la latenza; in questo modo il virus, che inizia a replicare, può essere in seconda battuta colpito e bloccato dall'Haart. Nei pazienti sottoposti a questo trattamento sequenziale, l'aggiunta dell'immunoterapia o di un vaccino potrebbe funzionare. Abbiamo diverse idee, diverse linee di ricerca in corso; potrebbero presentarsi diversi scenari a seconda di quando andiamo a trattare il paziente, in fase precocissima, precoce o tardiva".
E la terapia genica? Potrebbe giocare un ruolo nel trattamento dell'infezione da Hiv/Aids?
"Ci sono dati incoraggianti, ma la terapia genica può essere anche molto tossica. L'approccio usato finora è rappresentato dagli inibitori delle nucleasi, che vengono utilizzati nel tentativo di impedire alle cellule di esprimere i recettori per le chemochine (CCR5), che rappresentano una porta d'entrata del virus nelle cellule. Ma questa terapia può risultare molto tossica per le cellule. Insomma, è ancora veramente troppo presto per considerare la terapia genica una possibilità concreta di trattamento".
Sul fronte della prevenzione, quali sono le novità scaturite da questo congresso?
"Siamo tutti molto soddisfatti e ottimisti, grazie anche a questi nuovi dati che dimostrano come il trattamento rappresenti anche una strategia di prevenzione. Ma dobbiamo ricordare che questa non è la soluzione in assoluto e quindi non dobbiamo trascurare le misure classiche di prevenzione. Al congresso di Roma sono stati presentati dati importanti che confermano come anche la circoncisione possa giocare un ruolo importante nella prevenzione. Fondamentale resta tuttavia il cambiamento dei comportamenti a rischio. Per le donne sono state messe a punto nuove formulazioni di microbicidi, compresi dei gel contenenti agenti antiretrovirali. Sono abbastanza ottimista per il futuro".
Qual è il messaggio da portare a casa dalla Conferenza di Roma?
"Come tutti gli scienziati del mondo, siamo qui per fare scoperte, per contribuire al progresso scientifico. Ma bisogna ricordare sempre che se le scoperte degli scienziati non vengono implementate su vasta scala, stiamo tutti perdendo soldi e tempo per niente. E questo è inaccettabile. I governanti devono continuare a profondere il loro impegno per rendere disponibili le cure a tutti".
(*) Il 'Berlin patient' rappresenta un modello di eradicazione; gli élite controller sono invece un modello di quella che chiamiamo 'cura funzionale', remissione di malattia.
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di MARIA RITA MONTEBELLI
Francoise Barré-Sinoussi, virologa dell'Istituto Pasteur di Parigi, premio Nobel per la medicina con Luc Montagnier per la scoperta del virus dell'Aids
ROMA - A tutt'oggi, nonostante i grandi progressi della ricerca, non esiste una cura definitiva contro l'infezione da Hiv/Aids, né un vaccino preventivo. La terapia antiretrovirale ha fatto passi da gigante nei trent'anni di storia di questa infezione, consentendo oggi ai pazienti di vivere una vita "quantitativamente" normale, ma al prezzo di una sorta di 'ergastolo terapeutico', perché i farmaci vanno presi per sempre e non sono certo privi di effetti collaterali. E' per questo che il mondo della ricerca continua a sondare altre strade, cercando spunti anche da quei gruppi (esigui) di pazienti che mostrano un comportamento particolare quando esposti al virus dell'HIV.
A cambiare intanto è la tempistica dell'inizio del trattamento. Finora, la decisione sull'inizio della terapia antiretrovirale (Arv), si basava essenzialmente sulla risposta dell'organismo all'infezione; quando la conta dei linfociti T CD4+ scendeva sotto la soglia (arbitraria) delle 500 cellule per millimetro cubo, si dava avvio al trattamento. Ma alla luce degli ultimi studi presentati a Roma, al congresso mondiale sull'Aids (IAS 2011) appena concluso, le cose potrebbero presto cambiare.
Ne abbiamo parlato con Françoise Barré-Sinoussi, che per la scoperta del virus Hiv ha ricevuto il premio Nobel per la medicina 2008, in condivisione con Luc Montagnier, e oggi è presidente della International AIDS Society.
"Bisogna iniziare la terapia appena possibile - dice la studiosa - ; gli studi hanno ormai dimostrato che trattando il paziente molto presto si riesce a ridurre la mortalità e c'è un netto beneficio anche per la società. Trattare precocemente gli individui con infezione da Hiv significa infatti abbattere il rischio di trasmettere l'infezione al partner. Ma questo naturalmente comporta la necessità di migliorare anche la parte diagnostica; bisogna cioè spingere la gente a sottoporsi al test per l'Hiv. Terapia precocissima significa infatti cominciare a trattare non appena si scopre la positività al test dell'Hiv. Senza aspettare che i linfociti CD4+ diminuiscano. Questa non è ancora una raccomandazione ufficiale delle linee guida, ma ho motivo di ritenere che lo diventerà presto. Per il momento, la decisione di avviare il trattamento subito dopo il risultato positivo del test è a discrezione del medico".
Estendere il trattamento a tutte le persone positive al test per HIV, a prescindere dalla conta dei linfociti CD4+, è un approccio sostenibile?
"Certamente è un approccio difficilmente sostenibile da un punto di vista economico nei Paesi in via di sviluppo. Ma non è solo questo. In quei contesti c'è anche il problema di come raggiungere le persone colpite dall'infezione. Io lavoro molto con l'Africa e con il Sud Est asiatico quindi conosco bene queste realtà. Il programma nazionale in Cambogia, ad esempio, prevede di trattare tutti i pazienti quando la conta dei CD4+ scenda sotto 500. Ma in questo Paese le persone con infezione da Hiv spesso arrivano in ospedale con una conta di CD4+ inferiore a 50. E questo perché fino a quel momento nessuno gli ha mai proposto di sottoporsi al test. C'è dunque tanto lavoro da fare per migliorare il sistema sanitario, anche se questo processo per la verità è stato già avviato, grazie a iniziative quali quelle del Global Fund, del Pepfar, della Clinton Foundation".
Come implementare dunque il ricorso al test per l'Hiv?
"Al congresso di Roma sono state esaminate diverse soluzioni, come i test community-based, home-based e addirittura gli auto-test per l'Hiv. Oggi è disponibile anche un test rapido casalingo, che assomiglia in qualche modo a un test di gravidanza e si fa da una gocciolina di sangue. In realtà, questa modalità di test mi preoccupa un po' e mi lascia perplessa perché ritengo che la persona con infezione da Hiv abbia bisogno di informazioni e counselling. E' troppo duro scoprire da soli di essere positivi al test, in un contesto ancora carico di stigmatizzazione e discriminazione. Non credo che siamo pronti per l'auto-diagnosi. Al contrario, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo, i test di comunità possono rappresentare una risorsa. Perché le comunità sono sempre più organizzate e possono intervenire con il counselling e l'educazione".
Chi dovrebbe sottoporsi al test?
"Tutti possono essere considerati a rischio; lo sappiamo da molto tempo. Chiunque abbia avuto rapporti sessuali non protetti, dovrebbe fare il test per l'Hiv. Io credo però che il test debba rimanere volontario, perché è una questione di responsabilità del singolo individuo. Ognuno deve assumersi le proprie responsabilità. Ma certamente il ruolo del medico è quello di proporre il test. I medici, soprattutto quelli privati, almeno nel mio Paese, non propongono volentieri questo test ai loro pazienti. Dobbiamo migliorare questo approccio a livello di medicina privata, ma anche negli ospedali, che non devono limitarsi a proporlo alle donne in gravidanza".
Qual è il futuro della terapia? Eradicare l'infezione o tenerla sotto controllo?
"Il sogno di tutti ovviamente è quello di arrivare un giorno ad eradicare completamente l'infezione o almeno a trovare una cura funzionale. Stiamo imparando molto dall'osservazione di particolari gruppi di pazienti. Gli élite controller, ad esempio, che rappresentano una vera rarità, appena lo 0,3% di tutti i pazienti con infezione da Hiv. Si tratta di individui in grado di controllare naturalmente la loro infezione. Ci sono poi i long term non progressor (l'1% di tutte le persone con infezione da HIV), pazienti che non mostrano segni di malattia per lungo tempo, pur avendo l'infezione.
"Gli élite controller non avranno mai bisogno di ricevere alcuna terapia antiretrovirale perché riescono a controllare spontaneamente la replicazione del virus. Non è possibile rilevare la presenza del virus nel loro sangue; inoltre la dimensione delle loro cellule reservoir, quelle che rappresentano i serbatoi del virus in forma latente, è molto più piccola; questi soggetti insomma presentano una risposta immunitaria forte ed efficiente, in grado di eliminare le cellule infette e di controllare l'infezione.
"C'è poi un altro piccolo gruppo di pazienti, sprovvisto di un'efficace risposta immunitaria e comunque in grado di limitare l'infezione attraverso un altro meccanismo, che stiamo cercando di scoprire. Le loro cellule sono meno suscettibili all'infezione da Hiv. Ma non per una questione di recettori, come nel caso del 'Berlin patient' 1(*). Il virus in questo caso entra nella cellula, ma qui trova un sconosciuto fattore cellulare, in grado di bloccarne la replicazione all'interno della cellula".
Che ruolo ha l'immunoterapia nel trattamento dell'infezione da Hiv?
"Finora non ha mai funzionato. L'impiego di immunomodulatori, di vaccini è stato già provato nell'infezione da Hiv, ma senza successo. Ciò non significa che in futuro non possa funzionare, ma solo che finora apparentemente non abbiamo usato la migliore strategia. Personalmente non ritengo che utilizzando solo l'Haart, o solo la vaccinoterapia, questo potrà mai funzionare. Forse potrebbe funzionare trattando i pazienti molto precocemente, subito dopo il contagio, prima ancora della siero-conversione e realizzando anche in questo caso una cura funzionale.
"Nei pazienti con infezione cronica, già in terapia con Haart da tempo, non penso che l'approccio immunoterapico possa funzionare, perché le loro difese immunitarie sono state già troppo messe alla prova dall'infezione. In questi pazienti sembra più logico cercare altre strategie terapeutiche, come ad esempio tentare di uccidere le cellule che albergano il virus in forma latente, purgando i serbatoi del virus con nuovi farmaci. E' il caso ad esempio degli Hdac (hystone deacetilase inhibitors), farmaci in grado di stanare il virus, di sbloccarne la latenza; in questo modo il virus, che inizia a replicare, può essere in seconda battuta colpito e bloccato dall'Haart. Nei pazienti sottoposti a questo trattamento sequenziale, l'aggiunta dell'immunoterapia o di un vaccino potrebbe funzionare. Abbiamo diverse idee, diverse linee di ricerca in corso; potrebbero presentarsi diversi scenari a seconda di quando andiamo a trattare il paziente, in fase precocissima, precoce o tardiva".
E la terapia genica? Potrebbe giocare un ruolo nel trattamento dell'infezione da Hiv/Aids?
"Ci sono dati incoraggianti, ma la terapia genica può essere anche molto tossica. L'approccio usato finora è rappresentato dagli inibitori delle nucleasi, che vengono utilizzati nel tentativo di impedire alle cellule di esprimere i recettori per le chemochine (CCR5), che rappresentano una porta d'entrata del virus nelle cellule. Ma questa terapia può risultare molto tossica per le cellule. Insomma, è ancora veramente troppo presto per considerare la terapia genica una possibilità concreta di trattamento".
Sul fronte della prevenzione, quali sono le novità scaturite da questo congresso?
"Siamo tutti molto soddisfatti e ottimisti, grazie anche a questi nuovi dati che dimostrano come il trattamento rappresenti anche una strategia di prevenzione. Ma dobbiamo ricordare che questa non è la soluzione in assoluto e quindi non dobbiamo trascurare le misure classiche di prevenzione. Al congresso di Roma sono stati presentati dati importanti che confermano come anche la circoncisione possa giocare un ruolo importante nella prevenzione. Fondamentale resta tuttavia il cambiamento dei comportamenti a rischio. Per le donne sono state messe a punto nuove formulazioni di microbicidi, compresi dei gel contenenti agenti antiretrovirali. Sono abbastanza ottimista per il futuro".
Qual è il messaggio da portare a casa dalla Conferenza di Roma?
"Come tutti gli scienziati del mondo, siamo qui per fare scoperte, per contribuire al progresso scientifico. Ma bisogna ricordare sempre che se le scoperte degli scienziati non vengono implementate su vasta scala, stiamo tutti perdendo soldi e tempo per niente. E questo è inaccettabile. I governanti devono continuare a profondere il loro impegno per rendere disponibili le cure a tutti".
(*) Il 'Berlin patient' rappresenta un modello di eradicazione; gli élite controller sono invece un modello di quella che chiamiamo 'cura funzionale', remissione di malattia.
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