L'Hi-tec al servizio della salute globale
L'Hi-tec al servizio della salute globale
L'Hi-tec al servizio della salute globale
"Passi in avanti su Hiv e tubercolosi"
Intervista ad Anne Becker, docente di Global Health alla Harvard Medical School: "L'innovazione tecnologica sta cambiando le sorti della medicina preventiva nei Paesi sottosviluppati". Ma perché si muova qualcosa anche nel campo dei tumori e delle malattie mentali sono neccessari investimenti economici
di GIULIA BELARDELLI
Anne Becker
BOSTON – Per i più scettici, il termine “salute globale” non è che una formula usata per descrivere un sogno quasi impossibile. Per i più ottimisti, invece, la diffusione di corsi, convegni e appuntamenti internazionali dedicati all'argomento è di per sé sinonimo di svolta, come se di promesse non ne avessimo sentite già abbastanza.
Una cosa è certa: la moderna “global health”, quel crogiolo di discipline che è andato crescendo a partire dagli anni Quaranta del secolo scorso, ha oggi più che mai i riflettori puntati addosso. Il perché risiede, almeno in parte, nelle nuove tecnologie: il loro utilizzo nei paesi in via di sviluppo, infatti, sta mostrando con un'evidenza difficile da negare che diagnosi, trattamento e prevenzione di un'ampia gamma di malattie sono non solo possibili, ma anche economiche ed efficienti.
Di più: in alcuni casi queste innovazioni tecnologiche ci invitano addirittura a ripensare i nostri sistemi sanitari, in un processo che gli esperti definiscono 'disruptive innovation'. Ne abbiamo parlato con Anne Becker, vicedirettore del dipartimento di Global Health e Social Medicine della Harvard Medical School, dove si lavora per far diventare sociale la medicina e globale la salute.
Come è cambiata, nel corso dell'ultimo decennio, la percezione della salute globale? Quali sono stati i successi e quanto resta ancora da fare?
"Oggi c'è molto più interesse rispetto al passato sui temi della Global Health. Dieci anni fa non saremmo neanche stati qui a parlare di queste problematiche. I progressi più grandi stanno avvenendo nella lotta all'HIV, alla tubercolosi resistente ai farmaci e ad altre malattie infettive, ma qualcosa si sta muovendo anche nel campo dei tumori e delle malattie mentali. Dal punto di vista culturale, si sta diffondendo l'idea che la prevenzione sia primaria rispetto alla cura, poiché è più economica ed efficiente. Le sfide, purtroppo, restano tante: in primo luogo come sconfiggere la povertà e come mettere insieme politica, formazione e investimenti economici. Per fortuna oggi possiamo contare sulla forza di migliaia di persone che si ingegnano per dare il loro contributo. E sulla tecnologia, che si sta rivelando un'alleata molto più potente di quanto si potesse immaginare..."
In che misura l'innovazione tecnologica può trainare questo processo?
"La tecnologia ci sta mostrando che esistono modi molto più efficaci di agire, dalla diagnosi al trattamento. In molti casi stiamo assistendo a degli esempi di 'disruptive innovation', ossia del fenomeno per cui una tecnologia applicata a un contesto particolarmente difficile fa venire a galla idee geniali, potenzialmente in grado di rivoluzionare le nostre stesse pratiche. La diffusione dei dispositivi mobili, ad esempio, ha dato vita a una serie di piattaforme per la consultazione a distanza non solo vocale, ma anche per immagini. Tanto per citarne una, General Electric ha da poco creato un macchinario a ultrasuoni capace di trasmettere le immagini. Innovazioni come queste possono fare la differenza nei paesi in via di sviluppo, dove spesso c'è una carenza di infrastrutture e di personale: basta fornire i dispositivi a chi è sul campo, anche in aree remote, e inviare i dati a una sede centrale. In alcuni paesi africani, tra cui il Rwanda, un simile approccio ha già mostrato la sua efficacia. È intuitivo come gli stessi vantaggi possano applicarsi anche negli Stati Uniti piuttosto che in Europa".
Qual è la formula più efficace dal punto di vista organizzativo?
"Uno dei nodi centrali è la distribuzione di competenze e informazioni, ossia ciò che in termini tecnici viene definito 'task shifting'. L'idea consiste nel prendere alcune attività e servizi del sistema sanitario e spostarne la competenza su personale qualificato in una particolare funzione. In molti casi si tratta di abitanti del posto che dunque non hanno bisogno di tempo per guadagnarsi la fiducia della popolazione. Queste persone vanno dove c'è bisogno, fanno ciò per cui sono state formate e per tutto il resto possono rivolgersi alla sede centrale. Un modello analogo è stato utilizzato ad Haiti e ora è stato esportato qui a Boston con un programma chiamato “Prevention and Access to Care and Treatment” (Pact). Questi progetti sono esempi di innovazione alla rovescia poiché possono davvero portarci a riconsiderare altre possibilità per ridurre il costo del sistema sanitario".
Fino ad ora gli sforzi dei paesi ricchi si sono concentrati soprattutto nella prevenzione e nella cura delle malattie trasmissibili, in un approccio che gli addetti al settore definiscono “verticale”. Può spiegarci meglio cosa significa?
"Se si guarda indietro alla storia della salute globale non si può non notare come i percorsi iniziali siano stati un po' egoisti, ossia mirati ad aiutare l'altro per prevenire che i suoi problemi arrecassero danno a noi. Inizialmente, inoltre, gli interventi riguardavano quasi sempre una singola malattia. Oggi a questo approccio verticale si preferiscono soluzioni orizzontali, dove si cerca di intervenire a 360 gradi. Certo, per alcune malattie (come ad esempio l'Aids) c'è ancora bisogno di un approccio verticale, ma si tratta di situazioni in cui gli interventi forniscono strumenti utili per combattere anche altre patologie. Finora siamo riusciti a dimostrare che l'Hiv e la tubercolosi resistente ai farmaci (DR-TB) possono essere contenute anche in contesti economici poveri. La prossima domanda è: si può fare lo stesso per malattie come i tumori e i disturbi mentali? Per ora, tristemente, non è un problema visto che le aspettative di vita sono relativamente basse. Ma poiché stiamo lavorando per far crescere questi numeri nel più breve tempo possibile, la salute globale deve iniziare a preoccuparsi anche di questo".
Quanto incidono le malattie mentali sulla salute globale? E come vede il futuro della disciplina nata per affrontare questo problema, la Global Mental Health?
"Tra le malattie non trasmissibili, i disordini mentali e neurologici sono il principale fattore di riduzione delle aspettative di vita, più delle malattie cardiovascolari e del cancro. Non necessariamente provocano la morte, ma sono la più grande fonte di disabilità. E sono state a lungo ignorate. È una questione enorme dal punto di vista dei diritti umani. In molte parti del mondo disturbi relativamente semplici da trattare (come ad esempio l'epilessia) non vengono nemmeno diagnosticati. Il risultato è una sofferenza diffusa e inutile, che potrebbe facilmente essere evitata. Nei paesi in via di sviluppo l'approccio del mondo occidentale ai disordini mentali non può funzionare poiché si basa sulla presenza di esperti (psichiatri, psicologi, neurologi). Assieme al training, una soluzione può venire dalle nuove tecnologie. La strada è ancora lunga, ma se non altro abbiamo iniziato a percorrerla".
Prima ci ha parlato di un cambio di mentalità. Quale può essere il ruolo di media e singoli individui nel sostenere e nell'accelerare questo cambiamento?
"Raccontare storie è la chiave del cambiamento. Le storie sono in grado di motivare le persone con una forza che i dati scientifici non si sognano neanche. Per questo abbiamo bisogno di racconti, di volti ancor prima che di studi di popolazione. È necessario convincere i singoli individui – soprattutto quei giovani che si accingono a studiare scienze politiche piuttosto che ingegneria – che i loro sforzi possono davvero tramutarsi in qualcosa di concreto. Solo così la salute globale riuscirà a uscire dalle strettoie della sua astrattezza".
"Passi in avanti su Hiv e tubercolosi"
Intervista ad Anne Becker, docente di Global Health alla Harvard Medical School: "L'innovazione tecnologica sta cambiando le sorti della medicina preventiva nei Paesi sottosviluppati". Ma perché si muova qualcosa anche nel campo dei tumori e delle malattie mentali sono neccessari investimenti economici
di GIULIA BELARDELLI
Anne Becker
BOSTON – Per i più scettici, il termine “salute globale” non è che una formula usata per descrivere un sogno quasi impossibile. Per i più ottimisti, invece, la diffusione di corsi, convegni e appuntamenti internazionali dedicati all'argomento è di per sé sinonimo di svolta, come se di promesse non ne avessimo sentite già abbastanza.
Una cosa è certa: la moderna “global health”, quel crogiolo di discipline che è andato crescendo a partire dagli anni Quaranta del secolo scorso, ha oggi più che mai i riflettori puntati addosso. Il perché risiede, almeno in parte, nelle nuove tecnologie: il loro utilizzo nei paesi in via di sviluppo, infatti, sta mostrando con un'evidenza difficile da negare che diagnosi, trattamento e prevenzione di un'ampia gamma di malattie sono non solo possibili, ma anche economiche ed efficienti.
Di più: in alcuni casi queste innovazioni tecnologiche ci invitano addirittura a ripensare i nostri sistemi sanitari, in un processo che gli esperti definiscono 'disruptive innovation'. Ne abbiamo parlato con Anne Becker, vicedirettore del dipartimento di Global Health e Social Medicine della Harvard Medical School, dove si lavora per far diventare sociale la medicina e globale la salute.
Come è cambiata, nel corso dell'ultimo decennio, la percezione della salute globale? Quali sono stati i successi e quanto resta ancora da fare?
"Oggi c'è molto più interesse rispetto al passato sui temi della Global Health. Dieci anni fa non saremmo neanche stati qui a parlare di queste problematiche. I progressi più grandi stanno avvenendo nella lotta all'HIV, alla tubercolosi resistente ai farmaci e ad altre malattie infettive, ma qualcosa si sta muovendo anche nel campo dei tumori e delle malattie mentali. Dal punto di vista culturale, si sta diffondendo l'idea che la prevenzione sia primaria rispetto alla cura, poiché è più economica ed efficiente. Le sfide, purtroppo, restano tante: in primo luogo come sconfiggere la povertà e come mettere insieme politica, formazione e investimenti economici. Per fortuna oggi possiamo contare sulla forza di migliaia di persone che si ingegnano per dare il loro contributo. E sulla tecnologia, che si sta rivelando un'alleata molto più potente di quanto si potesse immaginare..."
In che misura l'innovazione tecnologica può trainare questo processo?
"La tecnologia ci sta mostrando che esistono modi molto più efficaci di agire, dalla diagnosi al trattamento. In molti casi stiamo assistendo a degli esempi di 'disruptive innovation', ossia del fenomeno per cui una tecnologia applicata a un contesto particolarmente difficile fa venire a galla idee geniali, potenzialmente in grado di rivoluzionare le nostre stesse pratiche. La diffusione dei dispositivi mobili, ad esempio, ha dato vita a una serie di piattaforme per la consultazione a distanza non solo vocale, ma anche per immagini. Tanto per citarne una, General Electric ha da poco creato un macchinario a ultrasuoni capace di trasmettere le immagini. Innovazioni come queste possono fare la differenza nei paesi in via di sviluppo, dove spesso c'è una carenza di infrastrutture e di personale: basta fornire i dispositivi a chi è sul campo, anche in aree remote, e inviare i dati a una sede centrale. In alcuni paesi africani, tra cui il Rwanda, un simile approccio ha già mostrato la sua efficacia. È intuitivo come gli stessi vantaggi possano applicarsi anche negli Stati Uniti piuttosto che in Europa".
Qual è la formula più efficace dal punto di vista organizzativo?
"Uno dei nodi centrali è la distribuzione di competenze e informazioni, ossia ciò che in termini tecnici viene definito 'task shifting'. L'idea consiste nel prendere alcune attività e servizi del sistema sanitario e spostarne la competenza su personale qualificato in una particolare funzione. In molti casi si tratta di abitanti del posto che dunque non hanno bisogno di tempo per guadagnarsi la fiducia della popolazione. Queste persone vanno dove c'è bisogno, fanno ciò per cui sono state formate e per tutto il resto possono rivolgersi alla sede centrale. Un modello analogo è stato utilizzato ad Haiti e ora è stato esportato qui a Boston con un programma chiamato “Prevention and Access to Care and Treatment” (Pact). Questi progetti sono esempi di innovazione alla rovescia poiché possono davvero portarci a riconsiderare altre possibilità per ridurre il costo del sistema sanitario".
Fino ad ora gli sforzi dei paesi ricchi si sono concentrati soprattutto nella prevenzione e nella cura delle malattie trasmissibili, in un approccio che gli addetti al settore definiscono “verticale”. Può spiegarci meglio cosa significa?
"Se si guarda indietro alla storia della salute globale non si può non notare come i percorsi iniziali siano stati un po' egoisti, ossia mirati ad aiutare l'altro per prevenire che i suoi problemi arrecassero danno a noi. Inizialmente, inoltre, gli interventi riguardavano quasi sempre una singola malattia. Oggi a questo approccio verticale si preferiscono soluzioni orizzontali, dove si cerca di intervenire a 360 gradi. Certo, per alcune malattie (come ad esempio l'Aids) c'è ancora bisogno di un approccio verticale, ma si tratta di situazioni in cui gli interventi forniscono strumenti utili per combattere anche altre patologie. Finora siamo riusciti a dimostrare che l'Hiv e la tubercolosi resistente ai farmaci (DR-TB) possono essere contenute anche in contesti economici poveri. La prossima domanda è: si può fare lo stesso per malattie come i tumori e i disturbi mentali? Per ora, tristemente, non è un problema visto che le aspettative di vita sono relativamente basse. Ma poiché stiamo lavorando per far crescere questi numeri nel più breve tempo possibile, la salute globale deve iniziare a preoccuparsi anche di questo".
Quanto incidono le malattie mentali sulla salute globale? E come vede il futuro della disciplina nata per affrontare questo problema, la Global Mental Health?
"Tra le malattie non trasmissibili, i disordini mentali e neurologici sono il principale fattore di riduzione delle aspettative di vita, più delle malattie cardiovascolari e del cancro. Non necessariamente provocano la morte, ma sono la più grande fonte di disabilità. E sono state a lungo ignorate. È una questione enorme dal punto di vista dei diritti umani. In molte parti del mondo disturbi relativamente semplici da trattare (come ad esempio l'epilessia) non vengono nemmeno diagnosticati. Il risultato è una sofferenza diffusa e inutile, che potrebbe facilmente essere evitata. Nei paesi in via di sviluppo l'approccio del mondo occidentale ai disordini mentali non può funzionare poiché si basa sulla presenza di esperti (psichiatri, psicologi, neurologi). Assieme al training, una soluzione può venire dalle nuove tecnologie. La strada è ancora lunga, ma se non altro abbiamo iniziato a percorrerla".
Prima ci ha parlato di un cambio di mentalità. Quale può essere il ruolo di media e singoli individui nel sostenere e nell'accelerare questo cambiamento?
"Raccontare storie è la chiave del cambiamento. Le storie sono in grado di motivare le persone con una forza che i dati scientifici non si sognano neanche. Per questo abbiamo bisogno di racconti, di volti ancor prima che di studi di popolazione. È necessario convincere i singoli individui – soprattutto quei giovani che si accingono a studiare scienze politiche piuttosto che ingegneria – che i loro sforzi possono davvero tramutarsi in qualcosa di concreto. Solo così la salute globale riuscirà a uscire dalle strettoie della sua astrattezza".
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