IAS 2011- cure personalizzate e prevenzione globale
IAS 2011- cure personalizzate e prevenzione globale
Le terapie migliorano ma il contagio continua Nel 1980, chi si ammalava di Aids, poteva sperare di vivere sei o sette mesi Ora nella terapia per l' Hiv si fanno i conti con il modo di invecchiare del paziente
C hi ha visto il film Philadelphia si ricorderà di Tom Hanks, avvocato, gay e malato di Aids, e di quelle macchie sulla sua pelle, che lui non riusciva a nascondere, segno inequivocabile del sarcoma di Kaposi. Poi sono arrivati i malati della seconda era, quella che ha toccato tossicodipendenti, eterosessuali, bambini ed emofilici: volti scarniti e occhi infossati, gambe rinsecchite e schiena curva; anche loro destinati a morire. Chi guarda oggi un sieropositivo, curato con i farmaci, non troverebbe niente di particolare nel suo aspetto fisico. Nemmeno quegli strani cuscinetti di grasso che erano l' effetto collaterale dei primi medicinali. Nel 1980, chi si ammalava di Aids, poteva sperare di vivere sei o sette mesi. Ora, un ventenne che si infetta, se ben trattato, può invecchiare con l' Hiv e arrivare fino a settanta, un' età paragonabile, anche se non proprio uguale, alla media della popolazione italiana, ma con un po' di problemi, perché il virus stesso fa invecchiare e perché i farmaci non sono acqua fresca. Dopo trent' anni dalla comparsa della malattia, le terapie hanno fatto passi da gigante, un po' meno la prevenzione, se ancora oggi in Italia si contagiano quattromila persone all' anno. Ottimismo, dunque, dal congresso dall' International Aids Society, co-presieduto da Stefano Vella dell' Istituto Superiore di Sanità e appena conclusosi a Roma, per il futuro dei malati, almeno alle nostre latitudini e longitudini (diverso è il discorso dei Paesi in sviluppo. I pazienti, però, non sono tutti uguali. Ci sono quelli più giovani e quelli più anziani (fra i quali sono aumentati i contagi, dicono, per l' effetto-Viagra), quelli che hanno cominciato presto la terapia e in buone condizioni di salute e quelli che invece sono arrivati alla diagnosi già ammalati di Aids (sono circa il 40 per cento e qui la cura è più difficile), ci sono poi le donne, che vogliono una gravidanza o che stanno arrivando alla menopausa. «Oggi abbiamo a disposizione più di una ventina di farmaci (alcuni in associazione) che interferiscono con la replicazione del virus e ci permettono terapie differenziate nei diversi pazienti» commenta Giuliano Rizzardini dell' Ospedale Sacco di Milano. Le categorie di farmaci sono quattro (cinque se si separano i nucleosidici dai non nucleosidici): dai classici inibitori degli enzimi ( trascrittasi inversa e proteasi , indispensabili alla riproduzione del virus, fra cui il primo, l' Azt, e gli anti-proteasi, quelli che hanno rivoluzionato la terapia nel 1996), ai più nuovi inibitori dell' entrata del virus fino all' ultimissima classe, quella degli inibitori dell' integrasi (il primo sarà il raltegravir). «L' infezione da Hiv - sottolinea Giovanni Di Perri dell' Università di Torino - è l' unica malattia infettiva che richiede una terapia a vita. E così si possono presentare, nel tempo, nuove situazioni, legate al modo di invecchiare del paziente, alla comparsa di altre patologie, come un' osteoporosi, una lieve insufficienza renale, un diabete, di cui bisogna tenere conto nel somministrare gli anti-virali. Ecco perché, anche per l' Hiv, si sta andando verso la "personalizzazione" della terapia». Oggi si parla di "cura funzionale": non più mirata alla eliminazione del virus, ma alla cronicizzazione della malattia. «La cronicizzazione però - ricorda Andrea Antinori dell' Ospedale Spallanzani di Roma - ha anche un rovescio della medaglia: il virus provoca da un lato un deficit del sistema immunitario, ma dall' altro lo attiva e generando così un' infiammazione cronica che può danneggiare organi come il cuore, il rene o l' osso. Ecco perché l' organismo di chi convive con il virus invecchia più rapidamente». Ecco perché, nonostante le vittorie della terapia, non va assolutamente trascurata la prevenzione. Prevenzione che, come i farmaci, va "personalizzata" a seconda del pubblico potenzialmente a rischio (ma questo si è sempre detto) e proposta in "cocktail" (e questa è la novità): siccome i metodi preventivi ci sono, ma nessuno funziona al cento per cento, l' ideale è "somministrarli in associazione", come si fa con i farmaci. Adriana Bazzi [Devi essere iscritto e connesso per vedere questo link]
Il congresso I massimi esperti mondiali si sono riuniti a Roma per un bilancio sulla lotta all' Aids e per le previsioni sul futuro dei malati * * * In Italia Metà dei casi scoperti in ritardo Si stima che almeno trentamila persone in Italia siano infette con il virus dell' Hiv e non lo sanno. E in circa il 40 -50 per cento dei casi, la diagnosi di sieropositività viene fatta in ritardo, quando il paziente presenta già un Aids vero e proprio.
L' ideale è che tutti si sottopongano al test, ma ci sono anche "malattie sentinella" che dovrebbero far sospettare la presenza di un deficit immunitario e spingere ancora di più a sottoporsi all' esame. Per esempio, chi ha altre malattie sessualmente trasmesse come (gonorrea, sifilide, clamidia, papillomavirus, per citarne alcune) è più facile che possa essere venuto in contatto anche con l' Hiv. Persone con epatite cronica potrebbero aver contratto il virus dell' epatite per via sessuale e quindi a rischio anche per quello dell' Aids. Anche la carenza di piastrine nel sangue può essere un sintomo precoce di infezione come certe malattie dermatologiche possono essere la spia di uno stato di deficit immunitario. Oggi il test per l' Hiv è gratuito (tra l' altro: in caso di rapporto sessuale a rischio con un sieropositivo, se dopo tre mesi il test è negativo, si può escludere il contagio, mentre fino a qualche tempo fa il "periodo finestra" era di sei mesi). Attualmente è anche disponibile un test sulla saliva (Easy test), che evita il prelievo di sangue. RIPRODUZIONE RISERVATA * * * Profilassi Una strategia «combinata» contro l' epidemia Non tutti i metodi di prevenzione sono uguali: alcuni funzionano più di altri e l' idea, oggi, è quella di associarli in una "prevenzione combinata", a seconda dei contesti. Le ricerche, che si sono accumulate negli ultimi anni, indicano le percentuali di successo di queste strategie. Il metodo che funziona di più è il "treatment for prevention": il tempestivo e precoce utilizzo della terapia anti-retrovirale, in persone con Hiv, ha ridotto del 96 per cento la trasmissione eterosessuale a un partner non positivo. Al secondo posto sta la circoncisione maschile con un 57 per cento di efficacia. Al terzo la somministrazione quotidiana per bocca di tenofovir più emtricitabina utilizzata come profilassi prima dell' esposizione (in un partner sano di sieropositivo): i risultati sono emersi dallo studio PrEP che sta facendo molto discutere (trattare i sani? per quanto? con quali risorse?). L' utilizzo di un gel vaginale microbicida all' 1 per cento di tenofovir, prima e dopo un rapporto sessuale, da parte di donne Hiv negative, come profilassi pre-esposizione funziona nel 39 per cento dei casi. All' ultimo posto sta il vaccino che, almeno secondo uno studio chiamato RV e condotto in Thailandia, ha un' efficacia del 31 per cento: poco, ovviamente per un vaccino preventivo, ma lascia aperta la porta alla speranza di poterne prima o poi, costruire uno più efficace.
Bazzi Adriana
Pagina 53
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C hi ha visto il film Philadelphia si ricorderà di Tom Hanks, avvocato, gay e malato di Aids, e di quelle macchie sulla sua pelle, che lui non riusciva a nascondere, segno inequivocabile del sarcoma di Kaposi. Poi sono arrivati i malati della seconda era, quella che ha toccato tossicodipendenti, eterosessuali, bambini ed emofilici: volti scarniti e occhi infossati, gambe rinsecchite e schiena curva; anche loro destinati a morire. Chi guarda oggi un sieropositivo, curato con i farmaci, non troverebbe niente di particolare nel suo aspetto fisico. Nemmeno quegli strani cuscinetti di grasso che erano l' effetto collaterale dei primi medicinali. Nel 1980, chi si ammalava di Aids, poteva sperare di vivere sei o sette mesi. Ora, un ventenne che si infetta, se ben trattato, può invecchiare con l' Hiv e arrivare fino a settanta, un' età paragonabile, anche se non proprio uguale, alla media della popolazione italiana, ma con un po' di problemi, perché il virus stesso fa invecchiare e perché i farmaci non sono acqua fresca. Dopo trent' anni dalla comparsa della malattia, le terapie hanno fatto passi da gigante, un po' meno la prevenzione, se ancora oggi in Italia si contagiano quattromila persone all' anno. Ottimismo, dunque, dal congresso dall' International Aids Society, co-presieduto da Stefano Vella dell' Istituto Superiore di Sanità e appena conclusosi a Roma, per il futuro dei malati, almeno alle nostre latitudini e longitudini (diverso è il discorso dei Paesi in sviluppo. I pazienti, però, non sono tutti uguali. Ci sono quelli più giovani e quelli più anziani (fra i quali sono aumentati i contagi, dicono, per l' effetto-Viagra), quelli che hanno cominciato presto la terapia e in buone condizioni di salute e quelli che invece sono arrivati alla diagnosi già ammalati di Aids (sono circa il 40 per cento e qui la cura è più difficile), ci sono poi le donne, che vogliono una gravidanza o che stanno arrivando alla menopausa. «Oggi abbiamo a disposizione più di una ventina di farmaci (alcuni in associazione) che interferiscono con la replicazione del virus e ci permettono terapie differenziate nei diversi pazienti» commenta Giuliano Rizzardini dell' Ospedale Sacco di Milano. Le categorie di farmaci sono quattro (cinque se si separano i nucleosidici dai non nucleosidici): dai classici inibitori degli enzimi ( trascrittasi inversa e proteasi , indispensabili alla riproduzione del virus, fra cui il primo, l' Azt, e gli anti-proteasi, quelli che hanno rivoluzionato la terapia nel 1996), ai più nuovi inibitori dell' entrata del virus fino all' ultimissima classe, quella degli inibitori dell' integrasi (il primo sarà il raltegravir). «L' infezione da Hiv - sottolinea Giovanni Di Perri dell' Università di Torino - è l' unica malattia infettiva che richiede una terapia a vita. E così si possono presentare, nel tempo, nuove situazioni, legate al modo di invecchiare del paziente, alla comparsa di altre patologie, come un' osteoporosi, una lieve insufficienza renale, un diabete, di cui bisogna tenere conto nel somministrare gli anti-virali. Ecco perché, anche per l' Hiv, si sta andando verso la "personalizzazione" della terapia». Oggi si parla di "cura funzionale": non più mirata alla eliminazione del virus, ma alla cronicizzazione della malattia. «La cronicizzazione però - ricorda Andrea Antinori dell' Ospedale Spallanzani di Roma - ha anche un rovescio della medaglia: il virus provoca da un lato un deficit del sistema immunitario, ma dall' altro lo attiva e generando così un' infiammazione cronica che può danneggiare organi come il cuore, il rene o l' osso. Ecco perché l' organismo di chi convive con il virus invecchia più rapidamente». Ecco perché, nonostante le vittorie della terapia, non va assolutamente trascurata la prevenzione. Prevenzione che, come i farmaci, va "personalizzata" a seconda del pubblico potenzialmente a rischio (ma questo si è sempre detto) e proposta in "cocktail" (e questa è la novità): siccome i metodi preventivi ci sono, ma nessuno funziona al cento per cento, l' ideale è "somministrarli in associazione", come si fa con i farmaci. Adriana Bazzi [Devi essere iscritto e connesso per vedere questo link]
Il congresso I massimi esperti mondiali si sono riuniti a Roma per un bilancio sulla lotta all' Aids e per le previsioni sul futuro dei malati * * * In Italia Metà dei casi scoperti in ritardo Si stima che almeno trentamila persone in Italia siano infette con il virus dell' Hiv e non lo sanno. E in circa il 40 -50 per cento dei casi, la diagnosi di sieropositività viene fatta in ritardo, quando il paziente presenta già un Aids vero e proprio.
L' ideale è che tutti si sottopongano al test, ma ci sono anche "malattie sentinella" che dovrebbero far sospettare la presenza di un deficit immunitario e spingere ancora di più a sottoporsi all' esame. Per esempio, chi ha altre malattie sessualmente trasmesse come (gonorrea, sifilide, clamidia, papillomavirus, per citarne alcune) è più facile che possa essere venuto in contatto anche con l' Hiv. Persone con epatite cronica potrebbero aver contratto il virus dell' epatite per via sessuale e quindi a rischio anche per quello dell' Aids. Anche la carenza di piastrine nel sangue può essere un sintomo precoce di infezione come certe malattie dermatologiche possono essere la spia di uno stato di deficit immunitario. Oggi il test per l' Hiv è gratuito (tra l' altro: in caso di rapporto sessuale a rischio con un sieropositivo, se dopo tre mesi il test è negativo, si può escludere il contagio, mentre fino a qualche tempo fa il "periodo finestra" era di sei mesi). Attualmente è anche disponibile un test sulla saliva (Easy test), che evita il prelievo di sangue. RIPRODUZIONE RISERVATA * * * Profilassi Una strategia «combinata» contro l' epidemia Non tutti i metodi di prevenzione sono uguali: alcuni funzionano più di altri e l' idea, oggi, è quella di associarli in una "prevenzione combinata", a seconda dei contesti. Le ricerche, che si sono accumulate negli ultimi anni, indicano le percentuali di successo di queste strategie. Il metodo che funziona di più è il "treatment for prevention": il tempestivo e precoce utilizzo della terapia anti-retrovirale, in persone con Hiv, ha ridotto del 96 per cento la trasmissione eterosessuale a un partner non positivo. Al secondo posto sta la circoncisione maschile con un 57 per cento di efficacia. Al terzo la somministrazione quotidiana per bocca di tenofovir più emtricitabina utilizzata come profilassi prima dell' esposizione (in un partner sano di sieropositivo): i risultati sono emersi dallo studio PrEP che sta facendo molto discutere (trattare i sani? per quanto? con quali risorse?). L' utilizzo di un gel vaginale microbicida all' 1 per cento di tenofovir, prima e dopo un rapporto sessuale, da parte di donne Hiv negative, come profilassi pre-esposizione funziona nel 39 per cento dei casi. All' ultimo posto sta il vaccino che, almeno secondo uno studio chiamato RV e condotto in Thailandia, ha un' efficacia del 31 per cento: poco, ovviamente per un vaccino preventivo, ma lascia aperta la porta alla speranza di poterne prima o poi, costruire uno più efficace.
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